di Tommaso Farina

 

Chiuso il 2022, come si apre il 2023 per il turismo italiano e la ristorazione? Chi vuole sistemazioni di lusso pare trovare gran pane per i suoi denti. Sul Corriere della Sera, il manager di un grande albergo milanese, Luca Finardi, è contento: finalmente Milano sta raggiungendo i prezzi di Londra e Parigi. Come dire: due delle città europee più care. L’albergo in questione, baciato da grande successo, è il Mandarin Oriental, che oltretutto è dotato di uno dei ristoranti più ghiotti e fascinosi d’Italia. Si potrebbe discutere la logica del plaudire all’aumento sempre più vertiginoso dei prezzi di Milano e di altre nostre città, tuttavia da un punto di vista strettamente imprenditoriale è del tutto comprensibile: è segno che la clientela, malgrado questo, continua a non mancare, e sceglie a colpo sicuro certe sistemazioni. Nella stessa Milano, poi, è in fase di apertura un nuovissimo (ma antico) albergo-bomboniera: il Casa Baglioni, 30 camere sfavillanti (780 euro a notte) e arredate in uno stile quietamente moderno, che lancia sostanziosi ammicchi agli anni Settanta. A curare il ristorante, un’istituzione della Milano culinaria: Claudio Sadler, chef abbonato alle stelle Michelin, coraggioso e rinomato pur non essendo propriamente un terrorista della mediatizzazione. Quindi: c’è trippa per gatti. Non si farebbe un investimento turistico così lauto se non ci fosse l’aspettativa di una congrua risposta da parte del turismo più esigente. E ‘turismo’ è la parola chiave, perché di vero turismo si tratta: certi alberghi, come il lussurioso Park Hyatt nella Galleria Vittorio Emanuele, ossia il salotto di Milano, hanno nella clientela di svago il 70% dei loro introiti. Certi sfarzosi alberghi sono preferiti dai vacanzieri: chi fa business viene sempre meno distratto dal lusso, e preferisce altre sistemazioni, viste anche le contrazioni dei rimborsi a piè di lista che le aziende, alle prese con la crisi, possono concedere ai loro collaboratori con forzata e maggior parsimonia rispetto al passato.

 

D’altro canto, la ristorazione sembra spesso seguire una tendenza all’incirca opposta: agli opulenti deschi alberghieri che scritturano chef di grido si contrappongono sempre più indirizzi votati al minimalismo, alla contrazione di menù resi sempre più agili, alla sostenibilità di cucine e materie prime, sempre più vegetali. Oppure, alla ripresa di ricette tradizionali in ottica moderna, magari fiancheggiate da cantine che professano la devozione a piccoli vignaioli di nicchia (di culto, oseremmo dire), a scapito di grandi e ipercostose firme dell’enologia che, agli occhi di certo pubblico, rievocano un passato fin troppo consueto, forse addirittura banale per i giovani, che comunque devono fare di necessità virtù anche per ragioni economiche.

 

L’onda lunga del post-Covid, peraltro non priva di ipotetiche e inquietanti ricadute, si gioverà del ruggito del leone turistico in tutte le sue declinazioni: da un lato, un viaggiare di lusso che, malgrado la mancanza dei russi, non conosce stallo e anzi si espande; dall’altro, un consumo consapevole e ragionato, anch’esso di pregio ma ben più accessibile. La convivenza armoniosa di questi due tratti sarà l’arma vincente per tutti.

 

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