di Federica Bartesaghi

 

Prima scena. Lago di Como preso d’assalto dagli stranieri. “Una stagione eccezionale”, confermano i ristoratori locali che finalmente possono rifarsi dopo due anni di agonia. Al molo di Bellagio, scene da sbarco come se ne vedono dai traghetti che approdano a Mykonos o Santorini. Difficilissimo trovare posto per uscire a cena, anche se i menù hanno visto aumenti da capogiro. Idem per quanto riguarda i rincari (a volte imbarazzanti) fatti sul vino. E tuttavia, esci a cena e non ordini neanche una bottiglia? Certo che la ordini. E quindi ecco arrivare il cameriere con la tua preziosissima bottiglia di bianco uscita direttamente dal frigo. E tuttavia, sono le otto di sera e ci sono ancora 30 gradi. Nel giro di 10 minuti il vino è quasi caldo. Dov’era la glacette, direte. La glacette c’era eccome. Una glacette molto alla moda, non c’è dubbio, ma con un piccolo problema: non raffredda. Risultato: il vino è quasi imbevibile. E a fine cena avevamo bevuto metà bottiglia (in tre).

 

Seconda scena: Toscana, ristorante sul mare in una piccola ma rinomata località di villeggiatura. Specialità pesce, naturalmente. Nella carta dei vini –  tre bianchi, tre rossi e tre bollicine in tutto – l’offerta verte solo su tre cantine e nessuna di queste è toscana. Ma tant’è. Optiamo per un bianco altoatesino di St. Michael Eppan. Lo specifico per una ragione ben precisa. Nel portarcelo, il cameriere dice: “Ecco il vostro *** di ‘San Michel’”. Alla francese. Tra commensali ci scambiamo uno sguardo che dice tutto: va bene che quest’anno c’è stata una spaventosa mancanza di personale di sala. Va bene che non si può conoscere tutte le migliaia di cantine di vino che ci sono in Italia. Ma se in menù hai tre cantine, mi verrebbe da pensare che almeno queste le dovresti conoscere a menadito. A parte questo dettaglio ‘di contorno’, il vino era ottimo.

 

Terza scena: ancora Toscana, ma nell’entroterra. Questa volta puntiamo a un rosso e lo vogliamo locale. La carta dei vini, al contrario della precedente, è vastissima. Dopo lunga e attenta lettura ne scegliamo uno e lo ordiniamo. Finito. Optiamo per un altro. Finito. Terza scelta, indovinate. Come va a finire? Che gli chiediamo di dirci cos’ha che si fa prima.

 

Quarta scena: sono a casa mia, apro il frigorifero e prendo una bottiglia che ho comprato – al suo prezzo – in azienda. Riempio una pentola di ghiaccio (non ho la glacette), mi siedo in balcone e mi godo il momento. Risultato: in 20 minuti la bottiglia è finita (in due). In quel preciso momento scatta l’attuale riflessione. Che probabilmente in migliaia hanno già fatto prima di me ma non importa. Perché  a volte è utile ricordare l’essenziale e dimenticare tutto il resto.

 

Il vino lo puoi fare selezionando i grappoli migliori, cresciuti sulle pendici di un vulcano, in vitigni sfiorati dalla brezza del mare o sulle Alpi. Lo puoi affinare in barrique, in acciaio, in anfora o negli Abissi. La verità, però, è che un vino devi anche saperlo presentare, raccontare e, banalmente, vendere. E poi, diciamola tutta. Con buona pace di sommelier ed esperti, un vino è buono quando piace. E se piace, lo capisci. Perché finisce subito.