Il ‘decalogo dello Spritz’ presentato lo scorso 26 maggio, con 10 punti a dir poco perentori, lascia spazio a qualche ambiguità. E, forse, a qualche dogmatismo di troppo.

 

di Tommaso Farina

 

Riusciranno i nostri eroi a normare il rito più anarchico, spettinato e scavezzacollo d’Italia, cioè l’aperitivo? La domanda è d’obbligo. Lo scorso 26 maggio, dopo una nutrita campagna stampa, a Milano è andato in onda il World Aperitivo Day: una giornata in onore di sua maestà l’aperitivo, il momento di socializzazione per antonomasia per migliaia di milanesi che escono dal lavoro. E non è tutto: l’Aperitivo Day, in realtà, funge da apripista per un ancora più ambizioso Aperitivo Festival, che prenderà il volo l’anno prossimo. Lo scopo? Valorizzare l’aperitivo, strappandolo al triste ritualismo di voraci scorpacciate di becchime più o meno riciclato. In ciò il vulcanico Federico Gordini, il patron del MWW Group che ha ideato questo e altri eventi (la Milano Wine Week, tanto per fare nomi), ha fatto centro: quello dell’aperitivo è un tema senz’altro onnipresente nel mondo del divertimento milanese, fin dai celebri ‘Aperitaviti’ evocati da Elio e le Storie Tese nel loro Supergiovane di qualche anno fa.

 

Ma… c’è un ma. La giornata dell’aperitivo si è conclusa con la presentazione del Manifesto dell’Aperitivo, iniziativa del resto presentata assieme alla giornata qualche settimana prima, col concorso del volto adorabile della giornalista Francesca Romana Barberini. In pratica, sarebbe un decalogo dell’aperitivo, con dieci regolette da seguire per non svilire, nelle intenzioni di chi l’ha concepito, tutto il rito. Ma come: un decalogo? L’aperitivo non era quella cosa in cui tutto è lecito, e guai a vietare? Ecco, vediamo di che si tratta, visto che il Manifesto è stato sottoscritto, tra gli altri, dall’ex ministro Gian Marco Centinaio, attualmente sottosegretario alle Politiche Agricole, nonché da chef di chiara fama quali Andrea Berton, Daniel Canzian e Viviana Varese. Tra i firmatari, anche Christophe Rabatel, amministratore delegato di Carrefour Italia, che assicura: “Siamo orgogliosi di firmare il Manifesto dell’Aperitivo, che punta a valorizzare un momento unico della tradizione enogastronomica italiana e a favorire scelte più consapevoli, sostenibili e di qualità”.

 

Al che viene da chiedersi: ormai la sostenibilità la mettono anche nel caffelatte? O nello Spritz, per restare in carattere? Ebbene sì, il punto 7 del Manifesto ce lo propone: “L’Aperitivo è un momento nel quale sperimentare scelte sostenibili, sia dal punto di vista degli strumenti e delle tecniche di somministrazione, che nell’uso di ingredienti stagionali e/o prodotti da aziende caratterizzate da un’attenzione alla sostenibilità produttiva, ambientale e sociale”. Benissimo. Ma quali sono gli strumenti e le tecniche di somministrazioni sostenibili, esattamente? Ci viene in mente, al massimo, il cercare di evitare di servire drink dalle bottigliette di plastica. Un altro punto che ha suscitato qualche interrogativo è il numero 3: “Per garantire lo spirito italiano di questo attimo di gusto, l’Aperitivo deve essere Made in Italy almeno al 50%, ovvero almeno la metà degli ingredienti utilizzati per l’abbinamento deve essere prodotta in Italia e l’origine italiana dei prodotti impiegati deve essere garantita attraverso una tracciabilità della filiera di produzione”.

 

Percentuali a parte, la domanda che sorge quasi spontanea è: era davvero necessario “disciplinare questo momento di convivialità a tavola”, per usare le esatte parole scelte dai promotori dell’iniziativa? Sappiamo bene che il Manifesto è un decalogo ‘leggero’, da seguire senza il terrore di contraddirlo, ma fa comunque l’effetto di una gragnuola di imposizioni di cui, a dirla tutta, non sentivamo proprio il bisogno.