Manca personale nei ristoranti. Da mesi. Ma una recente presa di posizione dello chef Alessandro Borghese ha scatenato il dibattito sul lavoro e le nuove generazioni. Tra sussidi statali, prese di coscienza e modelli formativi.

 

di Elisa Tonussi

 

Alessandro Borghese, il noto chef e volto televisivo, non riesce a trovare collaboratori per il suo locale milanese. La notizia, pubblicata qualche settimana fa, è stata ampiamente ripresa e commentata sul web. Il fatto è questo: in un’intervista rilasciata a Cook – Corriere della Sera, parlando del problema di non riuscire a trovare ragazzi da assumere, Borghese aveva dichiarato che “si tratta di un problema generazionale, mancano la devozione al mestiere e lo spirito di sacrificio”. Ha anche affermato: “Lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con ‘soli’ vitto e alloggio riconosciuti. Stop. Mi andava bene così: l’opportunità valeva lo stipendio. Oggi ci sono ragazzetti senza arte né parte che di investire su se stessi non hanno la benché minima intenzione”. E via la gogna mediatica.

 

In realtà, Borghese non ha fatto altro che mettere in evidenza un problema che da tempo affligge il settore della ristorazione e, più in generale, dell’ospitalità in Italia: manca personale, sia stagionale sia da assumere come dipendente nell’organico fisso. E manca da mesi. La ripresa del turismo e l’avvicinarsi della stagione estiva, però, hanno nuovamente portato alla luce il caso, tanto che non solo gli chef, ma anche dal mondo associativo si sono fatti sentire denunciando lo stato di fatto. “Il più grande problema delle imprese turistiche quest’estate sarà trovare personale stagionale”, ha affermato Marina Lalli, presidente di Federturismo. “Avremo clienti, ma non avremo chi se ne prenderà cura. Nessuno è disposto a rinunciare ai sussidi per un lavoro stagionale”. Ne hanno parlato anche Mario Cursani, vicepresidente di Fipe-Confcommercio, e Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi. “La mancanza di personale e professionalità adeguate sta diventando un problema molto serio per il settore del turismo e della ristorazione”, afferma il primo. “Paradossalmente in quanto momento è più difficile trovare dipendenti che clienti”, continua il secondo. Chi vuole lavorare, infatti, va all’estero, secondo quanto rivela Massimo Caputi, presidente di Federterme: “Molti vanno all’estero dove è ripartita la domanda e hanno contratti più vantaggiosi perché gli oneri sociali incidono molto meno. Altri preferiscono il reddito di cittadinanza e fare lavori saltuari”. Appunto, il reddito di cittadinanza: chi si candida vuole lavorare in nero per non rinunciarvi, oppure non si candida proprio. Lo ha confermato anche Flavio Briatore, intervenuto a proposito delle dichiarazioni di Borghese. “Quello che dice lo chef Alessandro Borghese è la verità: molti ragazzi cercano lavoro sperando quasi di non trovarlo”, afferma in un’intervista a Cook – Corriere della Sera l’imprenditore. “Io lo vedo chiaramente: preferiscono il reddito di cittadinanza a un percorso di carriera. Anche quando il percorso glielo si offre, ben retribuito: pur garantendo stipendi adeguati e contratti a lungo termine, rifiutano”.

 

Ma è davvero solo questione di sussidi? Tanti chef e operatori del settore, dall’inizio della lenta ripresa post-pandemica, hanno parlato di come, durante i mesi di chiusura forzata, gli addetti della ristorazione abbiano scoperto il valore del tempo: una vera e propria epifania per molti, che hanno ripiegato verso altri tipi di impiego o hanno iniziato a rivalutare le condizioni di lavoro. Perché anche di questo si tratta: di paghe adeguate e tempi di riposo garantiti. E si tratta anche di prospettive per il futuro. Chi è disposto a sacrifici – a investire gratuitamente il proprio tempo e le proprie energie, come afferma Borghese – senza avere prospettive?

 

Comunque, partendo dal presupposto che, per sua stessa definizione, il lavoro deve essere remunerato, laddove si parli di formazione dei giovani, è forse il caso allora che venga messa in dubbio la validità del modello formativo proposto. Insomma, potrebbe essere il caso che gli stessi chef navigati, che pontificano sulle ‘nuove generazioni’ che dovrebbero formare, mettano il proprio operato. Qualcuno lo ha fatto. Come Pino Cuttaia che, sempre a Cook – Corriere della Sera, ha ammesso: “Vero è che gli istituti alberghieri non sempre formano e motivano come dovrebbero, con docenti che spesso sono neodiplomati. E noi chef che non siamo abbastanza sul campo, mentre dovremmo entrare nelle classi e fare promozione. Passare il messaggio che quello del cuoco è un mestiere vocazionale”.

 

Insomma, non esistono vecchie generazioni perfette e nuove scansafatiche. Esistono persone, con necessità che cambiano con l’avvicendarsi di diverse contingenze. Ed esistono modelli e sistemi, che, di conseguenza, devono essere adeguati.