Di Tommaso Farina

 

“Molti chef finiscono in televisione per la loro personalità, più che per la loro abilità”. Marco Pierre White ha lanciato la bomba. Il leggendario cuoco inglese, il più giovane tristellato della storia della Guida Michelin, intervistato in Australia, ha detto quello che molti pensano: la tv, da mezzo che era, in certi casi è ormai diventata un fine, uno scopo ultimo.

 

Molti potrebbero obiettare: ma come, lo dice proprio lui, che il mezzo televisivo non l’ha di certo rifiutato? E sarebbe un errore. Come afferma lui stesso: “Non mi vedo come una celebrità. Io mi ero fatto un nome ben prima di lavorare con la televisione”. Tutto il contrario di colleghi che magari hanno ottenuto un decimo del suo successo, ma vengono reclutati dalle telecamere perché ‘funzionano’, perché potrebbero diventare dei personaggi. E i personaggi, si sa, sono ciò che un attore deve interpretare quando va in scena a teatro o al cinema. Marco Pierre White, che ha affrontato l’argomento in una breve intervista concessa ad April Glover di 9Honey Kitchen, la rubrica culinaria dell’australiana Channel Nine, ci tiene a rimarcare le distanze: lui ha solo ‘interpretato’ se stesso. “Quando feci il mio ingresso in una cucina, avevo 16 anni. Ero un ragazzo molto timido, molto ferito”: si riferisce alla sua infanzia tormentata, alla morte della madre quando aveva sei anni, e ai primi difficili passi di apprendistato in un hotel nel North Yorkshire, con meno di dieci sterline in tasca. Alla fine, ha dovuto farsi da solo: “Ho insegnato a me stesso il modo di esprimere quello che era il mio percorso nella vita”. E oggi invece? “Se vado a dare un’occhiata al mondo moderno, vedo che le ambizioni di molte persone sono più grandi delle loro capacità”. White dice “lot of people”, ma intenderà soltanto i colleghi cuochi, o un po’ tutti?

 

Lui, del resto, con la quotazione in borsa e i guadagni stratosferici, avrebbe sacrosanti motivi per tirarsela, vizietto che spessissimo si concedono cuochi d’artificio dal curriculum assai meno glorioso del suo. Eppure, non si sa se per calcolo o convincimento (ma probabilmente ambedue), White si schermisce: “La verità è che io non ho vinto le tre stelle. Le hanno conquistate le ragazze e i ragazzi giovani che lavorano con me”. Ed è bella l’espressione usata: “behind me”, letteralmente “dietro di me”. Lui sta davanti, e ottiene la gloria, ma non dimentica affatto chi lavora nelle retrovie, e che è determinante per il successo finale di una battaglia, se vogliamo fare una metafora militare. White, a suo tempo fan sfegatato dei Velvet Underground ma evidentemente innamorato anche della musica classica, preferisce però un paragone melodico: “Loro sono stati l’orchestra, la sinfonia l’hanno creata loro. Io sono stato solo il direttore d’orchestra, e loro hanno fatto avverare i miei sogni. Il lavoro di uno chef è quello del sergente maggiore”. Ossia, di chi coordina un piccolo manipolo di guerrieri.

 

Malgrado sia nato nella città operaia di Leeds, White ha origini italiane, ma in Italia non fa parte degli chef super-osannati dal grande pubblico. Ma che direbbe il pubblico italiano? Avete visto Cracco? Ormai c’è gente che pensa che Carlo Cracco sia un prodotto televisivo, un parto delle telecamere e della mentalità da show business. Eppure, pur con un pedigree Michelin meno altisonante, il suo percorso sul grande schermo è nato allo stesso modo: è stato chiamato perché in cucina rappresentava qualcosa, perché la sua insalata russa caramellata aveva portato un soffio di autentica genialità culinaria, e sfido io a dire il contrario. Oggi, in Italia, un Pierre White verrebbe forse tacciato di ipocrisia: se un cuoco si vanta o se la tira, tutto nella norma; ma se si schermisce viene considerato un ipocrita. Se è cattivo gli tirano le pietre, e se è buono pure. La televisione, giungendo a molta gente, espone anche al rischio di valutazioni affrettate. L’invito al pubblico televisivo che facciamo è impegnativo: quando vedete un cuoco parlare a schermo, fate una ricerca. Indagate su chi avete davanti. Sta a voi discriminare tra il vero artista e il ballon d’essai, il volto accattivante, magnetico ma senza background. Poi, casomai, criticate pure. Ma non prima.