Il popolare chef ha un ristorante che in cinque anni ha bruciato 4,6 milioni di euro. I commenti sui social si sprecano, ma cerchiamo di non dimenticare chi è e che cosa ha fatto. Con una domanda: andare in Galleria era proprio necessario?

 

Tommaso Farina

 

Tempi duri per Carlo Cracco. Il piatto piange, anche per i grandi. Anzi, soprattutto per loro. Aveva fatto rumore un indiscusso talento come René Redzepi, che mesi fa annunciò la chiusura prossima ventura del suo ristorante ultrastellato Noma, apripista della gastronomia nordica, con un grido di dolore: l’alta ristorazione “non è più sostenibile”.

 

Come ben sappiamo, se c’è un modulo d’impresa in cui ogni caso fa storia a sé e i successi e gl’insuccessi sono difficilmente preventivabili, è proprio quello della ristorazione. Tuttavia, certi casi particolarmente eloquenti non si possono ignorare. Ed eccoci, appunto, a parlare di Carlo Cracco. Un’assemblea di soci della sua Srl che controlla il ristorante nella Galleria Vittorio Emanuele di Milano ha prodotto un verbale che sembra un bollettino di guerra: il blasonato locale, in cinque anni d’esercizio, ha perso qualcosa come 4,6 milioni di euro. E questo nonostante la magica parola ‘fatturato’, che riempie spesso la bocca degli imprenditori milanesi, come fosse panacea di ogni male. Non in questo caso: il fatturato di Cracco nell’ultimo anno è lievitato 3,3 a 4,3 milioni di euro, ma la cosa serve fino a un certo punto, se deve contrapporsi a un aumento dei costi di produzione da 4 a 4,8 milioni. Come sempre, bisogna guardare gli utili, non i fatturati. E gli utili parlano di perdite ingenti, nell’ordine del mezzo milione all’anno, fino a giungere alla cifra-monstre di 4,6 milioni. Per essere esatti, il 2022 pare essere stato l’anno più positivo, se così si può dire: la perdita è stata contenuta a ‘soli’ 409mila euro, rispetto ai 524mila dell’esercizio precedente. Si tratta di un ‘guadagno’ di 115mila euro, cioè una cifra che per un ristorante normale potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.

 

In effetti, già il Report di Sigfrido Ranucci su Rai3 a febbraio ci aveva avvertito: Cracco perde mezzo milione annuo. Ma com’è possibile? È possibile, se si pensa che mantenere un locale in un posto come la Galleria di Milano, se non si posseggono gl’inestimabili muri, comporta un salasso d’affitto non proprio mite.

 

La reazione dei social, va da sé, è stata la solita, a metà tra lo sghignazzo e il ‘Ve l’avevo detto’. Personalmente, non mi accodo affatto allo starnazzare di coloro i quali tacciano Cracco di essere esclusivamente un prodotto televisivo. Lui non è grande per essere andato in televisione, ma l’esatto contrario. Forse questi commentatori teledipendenti, quando Cracco camminava da sé alle Clivie di Piobesi d’Alba dal ’96 al 2000, si dedicavano alle prime edizioni dei celebri programmi della De Filippi. Se c’è una cosa che non riesco a perdonargli è semmai il cambio di indirizzo. Sono troppo affezionato al Cracco originale in sodalizio con Peck, quello di via Victor Hugo: un Cracco da gourmet, da appassionati veri più che da sbornie social, che all’epoca non esistevano. Mi manca quel seminterrato senza finestre eppure arioso, quelle sale dove divennero grandi Luca Gardini e Matteo Baronetto. L’ultima volta che ci mangiai fu il 13 luglio 2010. Il grande menù costava, se la memoria non mi giuoca brutti scherzi, 130 euro. E comprendeva la mitica (perché lo era davvero) insalata russa caramellata, uno dei piatti più geniali degli ultimi trent’anni. E il musetto di maiale fondente con scampi e pomodori verdi, una grassa e leggiadra carezza. O il risotto bianco con nero di seppia, ricci di mare, midollo alla piastra: sul mio quaderno, avevo annotato: “Non senti il pesce ma il mare. Un piatto che è come un tramonto sul Tirreno”. Cracco era questo, e mi piace pensare che lo sia ancora. Non ricordiamolo come il cuoco della tivvù, o quello che non sa far quadrare i conti. Ma andare là in Galleria, doveva proprio farlo?