René Redzepi chiude il proprio ristorante per trasformarlo in un grande laboratorio itinerante di ricerca gastronomica. Il rischio di perdere di vista l’obiettivo primario della cucina. E il problema di un successo costruito sullo sfruttamento degli stagisti.

 

di Elisa Tonussi

 

È di lunedì la notizia della chiusura del celebre Noma, il ristorante di René Redzepi a Copenaghen, tra i migliori al mondo. L’annuncio era arrivato direttamente dallo chef con un post su Instagram, in cui esordiva scrivendo: “Per continuare a essere il Noma, dobbiamo cambiare”. Non un fulmine a ciel sereno per i più attenti. Già la scorsa estate, infatti, il titolare del Noma aveva annunciato grandi cambiamenti per il ristorante e il suo team: la brigata sarebbe rimasta nelle cucine di Copenaghen solo fino alla fine dell’estate. A partire dall’autunno, poi, tutti quanti avrebbero viaggiato in un luogo diverso del mondo per cucinare e apprendere. Aveva inoltre anticipato che “quando torneremo a Copenaghen per l’inizio del 2023, daremo avvio all’ultimo anno del Noma per come lo conosciamo”.

 

Cosa succede dunque al Noma? Lo spiega Redzepi in una lettera rivolta agli ospiti, ai colleghi e agli amici del Noma. “L’inverno 2024 sarà l’ultima stagione invernale del Noma per come lo conosciamo. Inizieremo un nuovo capitolo: Noma 3.0. Nel 2025, il ristorante si trasformerà in un grande laboratorio“. Si tratterà di una cucina pionieristica dedicata all’innovazione e allo sviluppo di nuovi sapori: il team del ristorante, o meglio, del laboratorio, viaggerà e aprirà, di volta in volta, un pop-up nei luoghi dove ci sarà maggiormente da apprendere. Tornerà dunque a Copenaghen per una stagione, una volta raccolte nuove idee e scoperto nuovi sapori, per poi ripartire. Insomma, il buon Redzepi sarà da rincorrere. E chi vorrà godere della rinomata cucina del Noma dovrà trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

 

Lo chef aggiunge poi che l’obiettivo è “creare un’organizzazione duratura destinata alla realizzazione di un lavoro rivoluzionario nella gastronomia”. Suona forse familiare? I toni dell’annuncio ricordano tanto quelli con cui Ferran Adrià aveva comunicato, ormai nel 2011, la chiusura del celeberrimo elBulli: “Cerramos elBulli para abrir elBulli”, “Chiudiamo elBulli per aprire elBulli”. Il grande innovatore, tra i cuochi più influenti a livello mondiale, aveva deciso di chiudere il suo ristorante tre stelle Michelin, in testa alla classifica 50 Best per diversi anni, per abbracciare un nuovo progetto: aprire una fondazione con l’obiettivo di proteggere l’eredità dello storico locale con il lavoro del BulliLab e di promuovere l’innovazione gastronomica attraverso la ricerca di un laboratorio espositivo, elBulli1846.

 

Anche Redzepi, dunque, punta su un progetto concettuale, dai contorni forse vaghi, che fa però riflettere sul concetto stesso di cucina e ristorazione. È vero: la Cucina, quella con la C maiuscola, è scrigno e rivelatrice di storia, cultura e tradizioni. E un piatto, proprio come un’opera d’arte, può raccontare molto del luogo e del momento storico in cui è stato creato, perché i cuochi interpretano e lavorano le materie prime in modi sempre differenti. Il cibo stesso può dunque farsi portatore di importanti messaggi socio-culturali: il cuoco sensibilizza così i suoi ospiti sui temi più disparati, dagli sprechi alimentari alla sostenibilità, dagli allevamenti intensivi alla perdita della biodiversità, solo per citarne alcuni. La natura stessa del ristorante e il fine dei cuochi, però, è pur sempre quello di nutrire, di dare da mangiare ai propri ospiti. Il rischio, tra tante riflessioni, è che si perda di vista l’obiettivo primario. Ed è il rischio che sta correndo Redzepi.

 

Troppo ingenuo, però, pensare che la nascita del Noma 3.0 sia meramente un vezzo filosofico-gastronomico di Redzepi. Perché c’è di mezzo il vil denaro. Da qualche tempo sembra che la situazione economica del Noma non fosse florida. La decisione di finalmente pagare i propri stagisti ha pesato non poco sulle finanze della società. Un articolo del Financial Times, pubblicato lo scorso giugno, aveva infatti messo in luce che, degli oltre 60 chef al Noma, metà sono stagisti non pagati, a cui viene richiesto di lavorare fino a 70 ore alla settimana. Ma se per primo ha sfruttato gli stagisti per costruire il suo successo, quale messaggio intende veicolare René Redzepi con il suo “laboratorio gastronomico”?

 

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