Daniel Humm, tristellato convertito sulla via di Damasco del veganesimo, ora ripropone i suoi più celebri piatti di carne a New York. È specchio di un’America che ha le tasche piene dei diktat politicamente corretti.

 

di Tommaso Farina

 

“Certi amori non finiscono / Fanno dei giri immensi e poi ritornano”, cantava il nostro Antonello Venditti. E proprio la sua retorica, mielosa ma nondimeno famosissima canzone ‘Amici mai’ è riecheggiata nella mia mente, quando settimane fa ho appreso che l’Eleven Madison Park riprenderà a cucinare prodotti animali. E questo perché sono passati quattro anni, eppure ricordo distintamente il clamore suscitato da Daniel Humm, chef svizzero di stanza a New York, che con dichiarazioni decisamente rumorose, quasi apocalittiche, annunciava la trasformazione del suo tre stelle Michelin in un locale completamente vegano. Ora, la retromarcia. Siamo quasi al “Contrordine, compagni!” coniato da Giovannino Guareschi, dato che per il dietrofront Humm sfodera una convinzione e una retorica tale da rievocare quelle del Pci degli anni Cinquanta, così abilmente satireggiata dal nostro grande scrittore.

 

“Ho deciso che è tempo di cambiare di nuovo. A partire dal prossimo 14 ottobre, integreremo il nostro nuovo linguaggio culinario in un menu che abbraccia la possibilità di scelta. Offriremo un menu vegetale, ovviamente, ma selezioneremo anche prodotti animali per determinati piatti – pesce, carne, e sì, la nostra anatra glassata al miele di lavanda. Mangiare insieme è l’essenza di chi siamo, e ho imparato che per padroneggiare davvero la cucina vegetale, ho bisogno di creare un ambiente dove ognuno si senta benvenuto intorno alla tavola”: così Daniel Humm. Ancora mi ronzavano in testa le parole, i toni da “Armiamoci e partite” della svolta vegana del 2021: “L’unico menu sostenibile per il pianeta? Quello vegetale. Tutti gli altri non lo sono, almeno negli Usa. Il sistema delle piccole fattorie non funziona, è una favoletta”.

 

Humm, come del resto molti chef, non ha mai improntato la sua comunicazione all’umiltà o al basso profilo: per lui, ogni decisione è sempre stata straordinaria, epocale, una specie di svolta planetaria. E il tragico è che lo è diventata davvero: non siamo forse qui a parlarne anche noi? Non è forse finita sui giornali più importanti tutta questa storia della transizione dell’Eleven Madison Park a vegano, e della sua de-transizione?

 

Tutto questo comunque è utile per fare qualche osservazione di tenore geopolitico. Gli anni subito a ridosso della pandemia sono stati forse quelli in cui un certo tipo di atteggiamento ha avuto la sua massima fioritura. Parlo del cosiddetto ‘woke’: ossia un progressismo feroce, che spazia dalle istanze superfemministe all’ambientalismo d’assalto. Erano gli anni in cui l’onnipresente Greta Thunberg non si era ancora convertita alla militanza anti-israeliana, e il suo ‘interesse assorbente’ erano le tematiche del clima, su cui ci ragguagliava in tutta una serie di video a pupilla umida. Il duo composto da Joe Biden e dalla sua vice Kamala Harris era da un annetto asceso ai vertici della Casa Bianca, e avrebbe messo certe questioni al centro della propria agenda politica. D’altro canto, la ristorazione viveva un momento tutto particolare: dopo la buriana del Covid, occorreva ricostruire tutto quello che era crollato. Ancora non si parlava di crisi del fine dining, e in ogni caso non come se ne fa oggi. La scelta vegana di Humm, uno chef famoso per fantastiche aragoste e dell’ancora più mirabolante anatra glassata al miele di lavanda (“È l’unica ricetta che ho reso davvero perfetta”), era il suo modo di darsi la carica, usare il cambiamento per provare ad alzare la testa. Simile cambiamento, con le sue venature ecologiste, andava comunque in una direzione che a certi ambienti intellettuali garbava parecchio. Ci provò anche a Londra, al Claridge Hotel, a cui faceva da consulente, ma la scelta fu seccamente bocciata dal management londinese.

 

Nel 2025, tutto da rifare. Il woke, di qualunque sfumatura, non tira più. La gente in America ne è arcistufa, non regge i comandamenti politicamente corretti (tra cui le ossessioni green), e ha dovuto prenderne atto anche Marck Zuckerberg, fondatore di Facebook. Che Humm si stia adeguando al clima politico mutato? Peraltro, una notazione illuminante: il celebre menù vegano da 12 portate, che nel ’21 costava 335 dollari, nel 2025 era arrivato a 365 dollari. Del resto, chi ha dimenticato un’altra sua frase storica? “I ristoranti? Troppo economici, dovrebbero costare il 40% in più”. Lui si è limitato a un più modesto rincaro del 10% in quattro anni… Comunque non disperino: l’adeguamento di Humm alla cattivissima America del riflusso trumpiano non gli impedirà di servire ancora piatti vegan nella maggioranza della sua lista. Però l’anatra al miele sarà presente alle bandiere. E qui Humm l’avrà capita: come dice Ivan Fargnoli dell’Hilton Mulino Stucky di Venezia, i signature dish li decidono i clienti. Mai privare un cliente del piatto più richiesto e amato.

 

Ph: profilo IG @danielhumm.

 

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