L’imprenditore non ha peli sulla lingua: non solo nella Capitale, ma anche nelle altre grandi città turistiche troppo spesso l’offerta di cucina è tarata sul basso. Il fondatore di Eataly apre a un progetto con Fipe per riportare le buone osterie nelle piazze più belle.

 

di Tommaso Farina

 

Oscar Farinetti colpisce ancora. Se il fondatore di Eataly dice una cosa, è perché la pensa. E se la pensa, la dice. E qual è stata l’ultima? “Nei posti più belli d’Italia, vedo ristoranti turistici terribili”. L’ha ammesso in occasione della Giornata della Ristorazione 2025 organizzata da Fipe-Confcommercio proprio la scorsa settimana. Venerdì 16 maggio, nell’augusta Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano alla Camera di Commercio di Roma, l’Oscar nazionale è intervenuto nel convegno Il valore della ristorazione italiana nel mondo, alla presenza di nomi come Enrico Derflingher (presidente Euro-Toques), Maria Caputo (vicepresidente degli Ambasciatori del Gusto) e Salvatore Bruno (segretario della Federazione Italiana Cuochi). E tra le altre cose, ha parlato non solo del mondo ma della ristorazione in Italia. Tirare in ballo simili argomenti a Roma è come discettare della corda in casa dell’impiccato, tuttavia certe cose andavano dette. E Farinetti l’ha fatto senza indugi: “Basta andare a piazza Navona o a Fontana di Trevi per vedere un’offerta non all’altezza”.

 

Personalmente, ho lungamente frequentato Roma tutte le settimane per oltre un decennio, dal 2006 al 2018. Ci sono poi ritornato parecchie volte, l’ultima delle quali il giovedì 8 maggio scorso, casualmente giorno dell’elezione di Papa Leone XIV. Il meno che posso dire, è che Farinetti ha ragione. Ma ragione da vendere. Lo facevano anni fa, l’han fatto con me pure l’altra settimana: un buttadentro ha cercato di trascinarmi a mangiare in un localaccio di poco pregio. E questo, nemmeno a piazza di Spagna o a Campo Marzio, ossia al centro-centro: mi trovavo in via Gioberti, la strada che corre da Santa Maria Maggiore alla Stazione Termini, ossia non propriamente uno dei salotti turistici della città. Roma non cessa di essere una specie di mangificio un tanto al chilo, purtroppo. E nei rioni più centrali, le cose peggiorano, con tanto di piatti di pasta portati fuori da pittoreschi personaggi che, per attirar clienti in sala, talvolta si mettono persino a mangiarseli sul posto, urlando frasi in improbabile inglese.

 

Un discorso classista? Per nulla. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste mangiatoie per turisti di facile contentatura non sono affatto economiche, anzi si rivelano fregature belle (non sempre) e buone (in pratica mai). E nemmeno Farinetti intendeva fare lo snob: “Questo non vuol dire che imporrei solo ristoranti stellati, ma vorrei più osterie, che invece al momento si trovano soprattutto nella provincia italiana”. Vero. Giusto. In centro a Roma, in mezzo a tanto ciarpame, qualche locale autentico sussiste. Mi viene in mente Armando al Pantheon, dove la famiglia Gargioli fa una concessione all’affluenza turistica solo con il sistema di prenotazione serale a doppio turno, ma per il resto fa cucina romana sincera e inattaccabile. Oppure Da Gino al Parlamento, in un vicolo a pochi passi da Montecitorio, dove in spazi angusti si consuma un’amatriciana da urlo. O ancora, il posto dove ho cenato io la sera dell’8 maggio: Cicilardone Monte Caruso, in via Farini. Un posto che la famiglia Lucia aprì nel 1974 in via Merulana e che traslocò vent’anni dopo all’indirizzo attuale. Un grande classico delle guide gastronomiche dei decenni scorsi, ma attuale ancora oggi, con la pasta fresca di tradizione lucana fatta a mano tutti i santi giorni e condita coi peperoni cruschi o con mollica di pane, aglio e olio.

 

Farinetti prova a dare una lettura del proliferare di tanta fuffa in mezzo a certe gemme: “Non so perché sia così. Immagino sia una questione di affitti cari. Magari chi spende tanto per l’offerta culinaria e il personale, non può poi permettersi certi costi di locazione”. Senz’altro vero. E mettiamoci il carico da novanta: periodicamente, leggendo i giornali, si scopre come spesso, dietro a certi locali, ci siano dietro organizzazioni criminali, anche mafiose. E quando hai le spalle coperte da capitali del genere, il minimo che si possa dire è che si tratta di concorrenza sleale. “Per questo ho voluto parlarne con Fipe che magari può provare a buttare giù un progetto per far tornare i ristoranti e il vero made in Italy anche nei centri storici”, conclude Oscar. Auspicio certamente da augurarsi. Non fateci scappare dalle città per farci trovare la bontà dell’Italia.