Il famoso chef stellato ha assistito alla gran cerimonia dei 50 Best Restaurants a Torino, e li ha mandati letteralmente a quel paese: troppe inconsistenze, troppe assurdità, troppe scelte surreali e poco chiare. Specchio fedele di gran parte del fine dining di oggi?

 

di Tommaso Farina

 

“Dopo la kermesse 50best a Torino ho visto il peggio del peggio del mondo food oggi”. “L’ha toccata piano”, direbbero i volponi della Gialappa’s Band. In effetti, la rassegna griffata San Pellegrino (alias Nestlé), che ogni anno pretenderebbe di spiegare al colto e all’inclita quali sono i ristoranti più fighi dell’universo, ha da sempre attirato critiche e perplessità. Ma l’edizione 2025 le ha battute tutte. Personalmente, non ho mai visto una The World’s 50 Best Restaurants tanto controversa e capace di attirare commenti al vetriolo anche da parte di gente apparentemente insospettabile.

 

La frase virgolettata che avete letto all’inizio, di chi è? A pronunciarla, con un caustico post su Facebook, è stato Marcello Trentini. Personaggio in cerca d’autore? Non proprio. Trentini, torinese e torinista (nel senso della squadra granata, di cui è convintissimo tifoso) ha avuto per vent’anni un ristorante nella capitale sabauda, e per dieci anni ha anche potuto fregiarsi della stella Michelin. Il suo Magorabin è stato per molto tempo un indirizzo stuzzicante, con una cucina schietta e anticonformista com’è la personalità del suo artefice. Da pochi mesi, Trentin aveva chiuso tutto, cambiando vita: “Chi mi conosce bene sa che, col passare del tempo, mi sono gradualmente innamorato di un tipo di ristorante più Smart che io definisco Funky”. Ed ecco che, con Valerio Lo Russo e Monica Parola, sempre a Torino ha aperto Brace Pura: ristorantino che non fa prigionieri, in cui vanno in scena ricette sincere e dirompenti come le animelle glassate con cavolo cinese pakchoi e il diaframma con friggitelli e bagnetto verde.

 

Ora, nella sua città Marcello Trentini ha assistito alla gran cerimonia dei 50best, che ha incoronato la cucina di Micha Tsumura, del ristorante Maido, di Lima, Perù. E non s’è trattenuto. Come poteva farlo? Il Magorabin, personaggio con cui si identifica, nei vecchi racconti dei nonni e bisnonni torinesi era il classico uomo nero delle fiabe, quello che spaventa i bambini. E così, eccolo esprimersi senza filtri: “Mai stato così felice di aver mandato affanc*lo il cosiddetto fine dining”. Avanti come un rullo compressore: “Gente che non parla neanche italiano che si bea di un momento triste di visibilità in cambio di un finger food pagato da una multinazionale. Dinosauri obesi della critica gastronomica che salgono sul carrozzone (qualunque sia il vincitore). Premi ridicoli. Ristoranti che puoi frequentare solo se sei milionario (guardate i prezzi di Maido, che per la cronaca sta a Lima dove si vive con 50 euro al mese)”.

 

Come giudicare questa presa di posizione? Al netto della virulenza, credo di poter essere abbastanza d’accordo. Da anni scrivo, in maniera più o meno estesa, delle stranezze e delle ambiguità di questo concorso, che sembra non sembra rispondere solo a un desiderio di celebrare la cucina. Per esempio, del mistero di come vengano attribuiti i voti, forse ancora più insondabile dei criteri di valutazione degli ispettori Michelin. Anche Enzo Vizzari, direttore delle Guide de L’Espresso – mica un signor nessuno qualsiasi -, in tempi non sospetti non aveva fatto mancare distinguo.

 

Oggi la voce generale, più o meno sussurrata, è che per gli organizzatori l’America latina sia una sorta di terreno vergine per nuovi mercati e investimenti. Ok: ma che c’entra una graduatoria di ristoranti? Ci sono davvero elementi ultronei, di tipo geopolitico potremmo dire, che influenzano certe scelte? Ci aggiungo una considerazione personale: com’è che quando un italiano ottiene buoni risultati (tipo Massimo Bottura, a suo tempo trionfatore e ora, proprio per questo, esiliato in quella sorta di Paradiso immateriale della Hall of Fame riservata ai primatisti) queste critiche vengono messe da parte? Poi ovviamente l’anno dopo tutto come prima, e i rilievi (secondo me più che giustificati) tornano a galla. A dirla tutta, l’edizione 2025 della 50best è stata accolta con un misto di insofferenza e di stanchezza: come dire, due delle sensazioni che l’attuale ‘fine dining’ sembra suscitare un po’ ovunque, a torto o a ragione. Che siamo di fronte a una svolta epocale?