Ivan Fargnoli, dopo diciott’anni in alberghi di lusso tra Shangai e Pechino, è diventato executive chef dell’Hilton Molino Stucky nella città lagunare. I tre ristoranti che gestisce hanno tutti un’impronta particolare. Nell’Aromi la sapienza culinaria italica incontra le suggestioni speziate dell’Oriente. 

 

di Tommaso Farina

 

Diciott’anni in Cina, poi ritorno in Italia. E a Venezia, come Marco Polo. In realtà, l’autore de “Il Milione” nel Celeste Impero ci restò un anno in meno, 17 anni, ma sono dettagli. La storia di Ivan Fargnoli, quarantunenne chef nativo di Legnano (Milano), è davvero simpatica e singolare, e con le debite proporzioni ricorda un po’ quella del viaggiatore veneto. Dal dicembre del 2022, Fargnoli è executive chef dell’Hilton Molino Stucky Venice, il magnifico albergo nato dal recupero della grandiosa installazione industriale sull’isola della Giudecca: e lo è diventato dopo una carriera di successo, portata avanti nei ristoranti dei più lussuosi alberghi della Cina di oggi. Lo incontriamo proprio nell’hotel, dove abbiamo anche provato alcune delle sue creazioni.

 

Qual è il suo ruolo qui al Molino Stucky?
Sono l’executive chef, ossia sovrintendo all’intera offerta di ristorazione dell’albergo, che comprende tre ristoranti: il Rialto Lounge, il Bacaromi e l’Aromi.

 

Questo traguardo lei l’ha colto dopo una lunga lontananza dall’Italia…
È stato come un ritorno alle origini. Ho studiato a Milano, allo storico istituto alberghiero Carlo Porta, poi ho fatto degli stage e ho dato una mano nella cucina di alcuni ristoranti di Legnano, la mia città. Poi però ho dato una svolta, e ho voluto provare a fare esperienza all’estero. Anzitutto in Inghilterra e in Scozia. Poi, sono andato a Dubai, dove sono diventato chef de partie all’Hyatt, albergo di livello internazionale. Lì ci sono rimasto due anni, poi mi sono trasferito in Cina.

 

E lì la carriera ha preso una piega imprevista…
Pensavo ci sarei rimasto poco. E invece, è finita che ci ho cucinato per quasi vent’anni, 18 per l’esattezza. Dapprima mi sono accasato all’Hilton Kunlun Jing An di Shangai, nel ruolo di “Italian Chef”: ero responsabile del Leonardo’s, il loro ristorante italiano. Poi mi sono spostato a Pechino, quindi a Chongqing, a Suzhou e infine a Shenyang, città non lontana dal confine con la Corea del Nord, sempre in alberghi di lusso a cinque stelle, con standard internazionale. Alla fine, sono diventato stabilmente executive chef, una qualifica che in alberghi del genere comporta responsabilità manageriali e di coordinamento, più ancora che direttamente culinarie. Ma certo non ho dimenticato come si cucina.

 

Del resto, l’abbiamo visto qui a tavola. Ma come mai la scelta di ritornare in Italia?
Da un lato, l’offerta che mi ha fatto Hilton era difficile da rifiutare, e certo si è aggiunta al mio desiderio di rivedere il mio Paese, oltre che di dare qualche assaggio di cultura italiana a mio figlio, che prima del 2022 era cresciuto solo in Cina. Uniamoci anche la bella sfida di misurarsi con un ambiente stimolante, unico e difficile come quello di Venezia, terra prescelta dai turisti di ogni parte del mondo. Così, eccomi qui.

 

E cosa le è stato chiesto?
Mi è stata data subito la responsabilità di executive chef, con un compito ambizioso: ripartire alla grande dopo la sanguinosa stagnazione seguita alla pandemia del 2020. Uno dei ristoranti, il Bacaromi, era chiuso da due anni. Nel 2022, il turismo mondiale scaldava i motori. A me è toccato rimettere in carreggiata, in un certo senso ricostruire tutto.

 

Il Bacaromi perché si chiama così?
È il nostro ristorante devoto alla tradizione veneziana: quella dei cosiddetti bacari, dove si mangiano stuzzichini sfiziosi, magari di pesce, da accompagnarsi a buon vino. E difatti, quella degli sfizi da condividere è una parte importante del menù di Bacaromi. E ci tengo a sottolineare che scegliamo fornitori veneziani, che per esempio ci portano le verdure della laguna, in particolare il carciofo violetto di Sant’Erasmo.

Aromi invece è il ristorante gourmet?
Da Aromi si mangia la cucina che invento io. Ricupero una tradizione italiana fondendola un po’ con quello che ho appreso in Cina sulle speziature e sui profumi. Per esempio, faccio le animelle con la più classica delle démiglaces, dando però il ‘twist’ con un’aggiunta di peperoncino del Sichuan, ingrediente che ho conosciuto bene a Chongqing.

 

Piatti signature?
È un’espressione che non amo: penso che il piatto-signature lo decida anzitutto il cliente. Però, ho alcuni miei ‘classici’, che i clienti sembrano prediligere: il consommé di ossa di anatra, in stile quasi pechinese. O il pesce Glacier 51, una sorta di merluzzo pescato nell’Oceano Antartico, servito con spinaci giapponesi, polvere di chorizo e carpaccio di zucchine marinate.

 

Dimenticavamo: e il terzo ristorante?
Il Rialto Lounge, che fa orario continuato, è dedicato alla nostra clientela che magari vuole assaggiare cucina internazionale: una pasta, una pizza, un pollo al curry. Tutto molto classico.