Il caustico Visintin ha detto quello che molti iniziano a pensare: l’alta cucina si sta imbalsamando in un crogiuolo di manierismi che sempre più spesso ti fanno sbottare: anche qui? Per esempio, l’onnipresente pane spaccato in quattro.

 

Tommaso Farina

 

Si comincia a respirare stanchezza, nel mondo dell’alta cucina? Il cosiddetto ‘fine dining’ è finito? O rappresenta sempre e solo l’olimpo della gola su cui puntare? Il dibattito è aperto. Sul Gambero Rosso, una penna all’arrabbiata come il sempre caustico Valerio Massimo Visintin ha lanciato una bombetta: “Il fine dining è ormai un corollario di riti prevedibili e idee noiose”, titola il suo articolo del 25 giugno. E questo, a pochi giorni dall’intervista del Corriere a Viviana Varese: la grande cuoca ha ammesso di voler ricalibrare le sue ambizioni, lamentando che “adesso andare a mangiare negli stellati sta tornando a essere un lusso d’élite”. È davvero in atto un riflusso verso cose più semplici?

Il pezzo di Visintin fa pensare alla querelle di Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno circa la portata innovativa della musica. Il filosofo teutonico, alla fine della Guerra, vedeva come emblema della noiosa conservazione la dodecafonia ‘prevedibile’ di Arnold Schönberg: il vero rivoluzionario, il caposcuola, per lui doveva essere solo e soltanto l’eversivo ed elusivo Anton Webern, enfant terrible dei compositori austriaci, molto più audace del suo conterraneo collega. Un vero grido di battaglia contro l’accademismo. Peccato che sappiamo tutti come sia andata: i seguaci della maniera di comporre di Webern finirono per sclerotizzarsi, generando una cerchia culturale chiusissima che uccise qualunque ispirazione originale, e dunque piombando a capofitto in un accademismo asfittico tanto quello che Adorno attribuiva agli adepti di Schönberg.

Ecco: secondo Visintin, la portata innovativa di certi locali ‘fine dining’ sta facendo lo stesso decorso della scuola musicale postweberniana, imbalsamandosi in manierismi tutti uguali e non sempre calibratissimi. Li cita proprio, in ordine sparso: “Le ceramiche bianche con bocconcini ‘finger food’ incollati sopra, i brodi versati direttamente al tavolo sulle pietanze, i pesci cubetto con ikebana di ‘verdure croccanti’, le macchiette e le svirgole colorate alla Pollock, l’esasperante spiegone dei piatti, la pagnottona calda da intingere nell’olio, i grissini sottili come giunchi, le memorie di nonna, i giochi di consistenze, i giochi di temperature, i giochi di innovazione”. Ve ne renderete conto: è una vera epifania, una fotografia impietosa. La pagnottona di lievito madre, personalmente, la trovo una goduria: sì, ma quante volte me l’hanno rifilata? Una volta, in una delle mie visite, ne ho trovata una che era venuta male: troppo asciutta e croccante, senza la morbida idratazione che ne dovrebbe costituire la maggiore attrattiva. Così, quella pagnotta fu una mezza tortura. Tutto per star dietro a un trend?
Sarà un caso, si chiede Visintin, se vari ristoratori stanno un po’ rivedendo il loro concetto di cucina, aprendosi a soluzioni magari meno ambiziose ma più fresche e spontanee? “Soltanto gli chef d’alto bordo, per ora, guardan per aria a riveder le stelle. Si accorgeranno presto che non c’è niente di più vecchio e noioso del fine dining”: la conclusione è lapidaria.

E noi, come la pensiamo? Abbiate pazienza: né inno né de profundis per l’alta ristorazione. Onore a chi riesce a proporre qualcosa che non sappia di già visto. Il che non significa ‘tradizione’: il ‘già visto’ è altro, è roba che annoia, mentre la tradizione non annoia. Il già visto è la moda passeggera. No, per noi il ‘fine dining’, qualunque cosa esso sia, non è finito, perché malgrado tutto abbiamo fiducia nella creatività umana. Se poi davvero, come dice Valerio, “Il feticcio coatto della creatività a oltranza si scontra con i limiti umani di una categoria con le idee al lumicino”, ci si faccia pure una pausa di riflessione, planando su lidi più rassicuranti ed esplorati, almeno per un po’. Così, dopo un periodo sabbatico, le nuove idee che arriveranno potranno avere un impatto ancora più incisivo.