The World’s 50 Best Restaurants esclude gli chef russi dalla sua gettonata classifica. La decisione divide, suscitando forti perplessità perfino da parte di grandi come Gaggan Anand. La cancel culture arriva al ristorante?

 

di Tommaso Farina

 

La guerra in Ucraina, oltre al costo davvero tragico in materia di vite umane e di esistenze spezzate, sembra aver prodotto un significativo corollario: una lievitazione esponenziale della tendenza a giudicare tutto e tutti in modo inflessibile. Tutto questo nel cosiddetto Occidente civile, capace di riempirsi la bocca di concetti come “libertà” e “democrazia” un giorno sì e l’altro pure.

 

La notizia è questa: The World’s 50 Best Restaurants, la superclassifica dei migliori ristoranti del mondo fatta da superesperti di tutto il globo, non valuterà nessun ristorante situato in Russia. Diciamolo: il mondo moderno dell’alta ristorazione, e non solo di quella alta, non è esattamente una roccaforte del pensiero critico. Se c’è un tema a cui è politicamente conveniente aderire, i grandi chef ci si buttano a capofitto: si trova sempre il modo di sottoscrivere le tematiche consacrate come cool e trendy dalle agende politico-morali del momento. Oggi, il canovaccio predominante è quello della guerra in Ucraina e di chi abbia torto o ragione, con relativo schieramento immutabile e impermeabile a tutto. Ed ecco dunque il comunicato dell’illustre consesso per giustificare il proprio boicottaggio, perché di tale si tratta: “Non riteniamo alcun ristorante o bar individualmente responsabile delle azioni del loro governo e riconosciamo coloro che in Russia hanno coraggiosamente denunciato le azioni dei loro leader. I nostri pensieri continuano ad essere rivolti al popolo ucraino in questo momento”. Tradotto: non vorremmo farlo, ma lo facciamo lo stesso, perché comunque abbiamo deciso chi sono i buoni e chi i cattivi. I ristoratori non c’entrano col governo? Alcuni di loro hanno scritto una lettera contro la campagna militare (leggi qua)? Non c’interessa, li penalizziamo ugualmente. Ha senso, no? La cosa divertente, o grottesca se preferite, è che pochi mesi fa l’organizzazione aveva annunciato che la gran serata di gala dell’edizione 2022 si sarebbe svolta indovinate dove? Proprio a Mosca. Un cortocircuito notevole: prima, la situazione politica russa evidentemente non faceva né caldo né freddo, o semplicemente si era ipotizzato di passarci sopra, magari per ragioni economiche.

 

Il comunicato con cui 50 Best Restaurants prova a giustificare le sue scelte profuma molto di una faccenda ultimamente molto in voga: la cancel culture. Ossia, quella cosa che viene definita inesistente da tutti coloro che, viceversa, ne sono i maggiori alfieri. Alcuni esempi? Il Moscow Mule, popolare cocktail, famosissimo anche prima del boom della mixology, in certi bar americani è diventato Kiev Mule. La Caipiroska, che ha il brutto difetto di contenere vodka, il principale distillato russo, è stata invece trasformata in un’ineffabile Caipi Island, mentre il Black Russian è diventato Black Ukrainian. Dal canto loro, alcuni enotecari romani hanno deciso di non vendere più vodka russa, almeno per un po’: e così facendo hanno ottenuto il loro scopo, che prosaicamente era quello di farsi un po’ di pubblicità sui media più diffusi. Ma queste cose hanno scarso impatto economico. Più grave la vera lista di proscrizione per artisti e uomini di cultura di comprovato talento, ma purtroppo di opinione diversa rispetto a quella dominante, o semplicemente dubbiosi sui sensi unici narrativi. Si badi al trattamento riservato al direttore d’orchestra Valeri Gergiev, fatto passare per una sorta di agit-prop putiniano da gente che probabilmente prima l’aveva solo sentito nominare. O delle lezioni su Dostoevskij programmate in Università Bicocca con lo scrittore Paolo Nori, sospese, poi precipitosamente ripristinate, poi definitivamente cancellate per il rifiuto sdegnato del relatore, peraltro non esattamente un guerrafondaio, sconcertato dal tam tam. E di Alessandro Orsini, professore della Luiss, che per aver parlato delle pesanti responsabilità occidentali nel conflitto è stato pubblicamente censurato dall’università, vogliamo parlare? O del corrispondente Rai da Mosca, Marc Innaro, che con alcune sue pacatissime analisi si è attirato l’ira dei più variopinti esponenti parlamentari, che con grande sprezzo del ridicolo l’hanno definito “filorusso”, nientemeno? Sembra stia venendo allo scoperto una follia collettiva di passivi-aggressivi.

 

Del resto, anche Michelin, che aveva dato alle stampe l’anno scorso la prima Guida 2021 dedicata a Mosca, oggi ha fatto marcia indietro: nessuna edizione 2022 (leggi qua). Ma la motivazione, almeno sulla carta, sta nella grande difficoltà a ispezionare i ristoranti russi mentre è in corso una situazione geopolitica tanto delicata.

Sul pasticciaccio della 50 Best, il giornalista Luciano Pignataro commenta con saggezza: “Il tema è sicuramente divisivo. Il nostro modesto punto di vista è che eliminare tutto ciò che è russo per il semplice fatto che è russo non c’entra niente con le sanzioni e con la necessità di fermare la guerra”. E Gaggan Anand, indiano, allievo di Ferran Adrià, proprietario di quello che molti considerano il miglior ristorante della Tailandia (spesso anche citato nella classifica stessa, in posizioni lusinghiere), già senza peli sulla lingua nel fare le pulci a una corazzata come la Michelin, è laconico e ultimativo: “Food should unite, not divide!”. Insomma: il mangiare dovrebbe unire, non dividere. E come dargli torto? La decisione di 50 Best Restaurants non è stata accolta dunque con un favore plebiscitario: in tanti, cuochi e professionisti, ma anche appassionati, hanno espresso perplessità. Segno che non solo noi abbiamo trovato l’iniziativa decisamente discutibile. Poi certo: la palla è loro, e loro decidono chi gioca. Ma finché si potrà discutere, dialogare, sarà sempre una bella cosa parlarne.