Lo show dei cuochi amatoriali torna alla ribalta scatenando dibattiti. Qualcuno si chiede: qual è il confine tra il prodotto di verità e la fiction? I giudici e i concorrenti sono prigionieri dei propri personaggi?
di Tommaso Farina
Questo 2023 profuma molto di 2011. Masterchef torna sulla pagine dei giornali, e non solo in quelle gastronomiche. Tempo fa, analizzando la tendenza di una diminuzione delle iscrizioni ai percorsi professionali che formano camerieri e cuochi, facevamo notare come ormai una trasmissione come Masterchef fosse diventata parte dell’arredamento televisivo italiano, e non avesse più quell’effetto dirompente sul pubblico che aveva nei primi anni. Un po’ come il Grande Fratello, soltanto più serio.
E invece, riecco Masterchef. Il concorrente Francesco Girardi, trentino trapiantato in Emilia, trentatreenne dalla storia non facile, viene giubilato. Insomma, fatto uscire. E alza la testa: “Ricordate che davanti a voi non ci sono solo degli aspiranti chef, ma delle persone”. Caspita! Prima volta che qualcuno dice qualcosa ai temibili giudici Masterchef, a quanto pare. E sì che da tempo non si vedono gli exploit delle prime stagioni, con Joe Bastianich che lanciava i piatti mormorando rampogne in italiano stile Brooklyn. La cosa ha provocato dei dibattiti, anche centrati: quanto può essere stressante lavorare in cucina?
Ma l’articolo rivelatore, l’epifania definitiva l’ha scritta su Repubblica quel vecchio lupo di Guido Barendson l’11 gennaio: un pezzo intitolato Il teatrino infinito di Masterchef: tutti recitano e noi facciamo finta di crederci. In poche parole: il re è nudo. “Un dubbio che mi viene spontaneo come avrebbe detto il poeta: se fosse uno sceneggiato popolare di lunga durata come ‘Dinasty’ o ‘Un posto al Sole’, mediteremmo veramente di insorgere in difesa di una vittima clamorosamente designata e come tale pensata a rappresentare quel personaggio per eccellenza?”: se lo domanda il navigatissimo collega partenopeo, che di cucine ne frequenta da sempre, e anche di televisioni. E paragona Masterchef a un telefilm, anzi a una sceneggiata napoletana, in cui i personaggi seguono uno schema immutibile di stereotipi, o se preferite archetipi: il buono, la sua amata, il cattivo.
Barendson, chiedendosi se il programma non stia cominciando a mostrare la corda, nota come i giudici stessi sembrino recitare una parte: Cannavacciuolo gigante semibuono, Barbieri acuminato ma magnanimo. Davide Scabin, il geniale Pierino dei cuochi italiani, ospite della puntata di giovedì scorso, secondo Barendson è stato reclutato per movimentare lo show con la sua indiscutibile imprevedibilità: “Mantiene una verginità televisiva e non appare trattenuto dai lacci e dai lacciuoli che gli sceneggiatori stringono attorno ai suoi sodali”. In questo teatro, perfino le parole sentite e genuine di Girardi rischiano di confondersi e di confondere: che ci sarà di vero, si chiede il pubblico smaliziato? Barendson è decisivo come una sentenza: “Dura Fiction sed Fiction! Per chi ha uso di televisione non è difficile decodificare i ruoli assegnati a ciascuno dei concorrenti. Ma attenzione, amici spettatori, un conto è divertirsi quando il poverello è gettato nella fossa dei leoni con falsi sorrisi di circostanza – ‘ci dispiace, togliti il grembiule’ – un altro è essere consapevoli non trattarsi affatto di gioco. Eventualmente, gioco al massacro!”. Come nei Pagliacci di Leoncavallo, in cui la finzione scenica diventa più vera del vero, in un tragico epilogo. Speriamo che Masterchef finisca un po’ meglio…
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