Ferran Adrià, decano degli chef mondiali, interviene sul tema del momento: signori, quando fate ristorazione dovete saper gestire il conto economico. E non è obbligatorio essere super-creativi, se poi la vostra impresa non riesce a stare in piedi.

 

Tommaso Farina

 

Ragazzi, occhio ai conti. Così parlò Ferran Adrià (in foto), nume tutelare degli chef, per anni il cuoco più creativo e di culto al mondo. Neanche a farlo apposta, le parole del venerato maestro, sentite in occasione del congresso ‘Nutrire l’incontro’ alla romana Accademia di Spagna, sono piovute in un momento storico in cui ci si interroga seriamente sull’identità, la validità e (scusate la parola abusata) la sostenibilità del cosiddetto fine dining, ossia la ristorazione creativamente e anche economicamente posizionata in una fascia più alta.

 

A margine di un consesso che prevedeva la partecipazione di figure come Vincente Todolí, curatore d’arte contemporanea alla direzione dell’Hangar Bicocca ed ex direttore della Tate Modern di Londra, l’augusto cuciniere catalano ha detto la sua: “Ai giovani consiglierei che prima di essere creativi bisogna saper fare i conti, guidare la sostenibilità economica del ristorante”. Capita a fagiolo, davvero: in Italia si discute di questo tema fin dall’estate, e c’è chi ha vaticinato perfino un imminente collasso della ristorazione ad alto livello, schiacciata dai costi sempre crescenti delle materie prime, dalle difficoltà a trovare personale qualificato e, non ultima, dalla contrazione della capacità di spesa dei clienti, che si fa sentire anche in contesti dove ci si immagina venga a pranzare solo chi non ha problemi. Continua Adrià, arrivando al punto: “A fronte di un ristretto numero di cucine in grado portare innovazione alla cultura gastronomica mondiale, un mestiere elitario quindi, c’è un 99% di chef e cuochi che mediaticamente si presentano come creativi, spesso trascurando la cucina di tradizione. Ma la ristorazione è soprattutto fare impresa, un settore che con l’indotto arriva ad esprimere il 33% del Pil in Spagna”. Cosa vuole dirci esattamente? Anzitutto, che occorre evitare di fare passi più lunghi delle gambe: se vuoi imbarcarti in una ristorazione imperniata sull’inventiva assoluta, processo che richiede abilità, tecniche, utensili e ingredienti molto costosi, occorre avere talento e capacità di programmazione. Altrimenti, finisci col tarparti le ali da solo. Può succedere quello che il medesimo Adrià rivelava l’anno scorso in un’altra intervista: “Uno studio svolto in Spagna sostiene che il 50% dei ristoranti di qualsiasi tipo non superi i 5 anni. Succede perché molta gente quando apre, non sa cosa stia facendo”. Quadro tragico? Non necessariamente: se c’è il ‘manico’ e l’accortezza, spiegava lo chef ad Alessandra Meldolesi, non è detto che finisca male: “Quelli che offrono qualità, vantano una buona gestione e un approccio innovativo, possono contare sul 90% delle possibilità di farcela. Qualità, buona gestione e apertura ai cambiamenti”. Buona gestione, ecco. E difatti, si moltiplicano i corsi tenuti da ristoratori per provare a insegnare ai colleghi come fare: mi vengono in mente gli ultimi che ho scoperto, quelli di Gaetano Marinaccio, che è giovane ma ha tanta esperienza, gestisce un ottimo ristorante a Rho (Milano) e spiega a chi lo desidera tutte le insidie e i segreti del cosiddetto ‘revenue management’.

 

Interessanti anche le parole di Adrià sulla tradizione culinaria: lui, scassatore di convenzioni e di usanze come pochi altri, fa capire che non va trascurata, se è ciò che si sa fare. Si può creare grande cucina rimanendo in solchi tradizionali: la Clinica Gastronomica Da Arnaldo, a Rubiera (Reggio Emilia), che vi abbiamo raccontato sul nostro giornale nel 2022, ha una stella Michelin dal 1959. E cosa serve? Salumi, cappelletti, la leggendaria spugnolata (una lasagna bianca con le spugnole) e soprattutto un memorabile carrello di bolliti e arrosti. E tutto gestito con piglio e impostazione da ristorante d’alto livello, come un tempo ce n’erano e oggi molto meno. Un fine dining all’emiliana. E Roberto Bottero e la sua famiglia non hanno difficoltà a riempire i tavoli, anzi a fare revenue. Se uno ha talento in campo tradizionale, dice Adrià, gli conviene proseguire su quella strada, se gli consente di fare impresa con successi inattaccabili. Franco Cimini, chef e patron dell’Osteria del Mirasole a San Giovanni in Persiceto (Bologna), locale segnalato da decenni sulla Michelin, commenta le parole del catalano facendo capire che la pensa allo stesso modo: “Chi glielo spiega ai sostenitori dell’avantgarde? Del ‘famolo strano’ a tutti i costi? Un bellissimo proverbio bolognese recita: viene sera a casa di tutti”.

 

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