La guerra santa per la pizza all’ananas di Sorbillo e le minacce di morte per la ricetta ‘eretica’ della carbonara scoperta per caso da Luca Cesari: l’anno nuovo inizia coi fuochi d’artificio nel piccolo e sapido mondo della gastronomia.
di Tommaso Farina
A noi che amiamo mangiare, possibilmente bene, cosa dice questo 2024 nuovo di zecca? Quali sono le sensazioni, le aspettative che abbiamo? Intanto, possiamo vedere come s’è concluso l’anno precedente: con insulti e anatemi. Gino Sorbillo, a mo’ di provocazione, ha propinato la pizza all’ananas. Una parodia della pizza americana. Con l’ananas, probabilmente, qualche pizzaiolo di rango ci aveva già provato. Ma Sorbillo ha fatto come sempre il botto. Per qualche arcana ragione, Sorbillo catalizza il triplo delle attenzioni che ottengono i suoi colleghi, fin da quando lanciò l’idea (ma l’avrà veramente applicata?) di maggiorare i prezzi per i parlamentari, a mo’ di reazione ai listini fin troppo calmierati in vigore nei ristoranti interni di Montecitorio e Palazzo Madama. Tanto per far vedere che fa sul serio, Sorbillo non si è accontentato dell’ananas: sulla sua pizza ci ha pure sparso il tomato ketchup. Se americanata dev’essere, che lo sia fino in fondo, s’è detto il grande Gino. Risultato? Una valanga d’insulti, critiche, prese per i fondelli più o meno sboccate. Helder Monaco, un esperto di marketing digitale tra i più simpatici e anticonformisti, sostiene che il famoso concetto “Nel bene o nel male, basta che se ne parli”, da sempre sbandierato per giustificare qualsiasi campagna pubblicitaria, non sia sempre universalmente valido: nella fattispecie, non lo è quando, citiamo testualmente, “La visibilità complessiva, pur essendo anche molto estesa, non arriva al target di riferimento della persona/azienda”. Non è decisamente il caso della pizza all’ananas di Sorbillo: il target di una pizzeria, in termini di clienti, è vastissimo, e in questo caso è stato pienamente raggiunto. Anche le incavolature dei crociati della tradizione (benemeriti, per carità) fanno gioco.
Altri crociati, meno simpatici a dire il vero, sono stati poi quelli che hanno preso di mira Luca Cesari, un ricercatore di cucina storica. Reato? Lesa carbonara. La carbonara nell’ultimo anno è stata oggetto di infinite speculazioni. È stata rilanciata la tesi che la vede nascere addirittura in Romagna, durante la guerra, per mano dei soldati americani sbarcati in Italia. Una tesi interessante, ma che in fin dei conti non è decisiva: un piatto così iconico può anche fare a meno di particolareggiate ricerche, che oltretutto difficilmente potranno dare esiti definitivi. Per questo, a nostro avviso, ha torto tanto chi cerca di risalire alle usanze culinarie dei carbonai dell’Appennino abruzzese, quanto chi invece si incaponisce sulla tesi della creazione yankee ex abrupto come fosse Vangelo, anzi con lo scopo di dimostrare l’infondatezza di qualunque tradizione, come nemmeno velatamente ha provato a fare il famigerato Alberto Grandi. Bene: Luca Cesari scoprì una ricetta della carbonara su un numero de La Cucina Italiana del 1954. Una delle tante, verrebbe da dire. Senonché, tra gli ingredienti figurano uno spicchio d’aglio e il Gruviera. Sissignori, il formaggio. Una ricetta davvero strana, ma non c’è da stupirsi: il Buonassisi, nel suo Piccolo codice della pasta, suggeriva di preparare i pizzoccheri alla valtellinese con il Bitto, formaggio che con la zona di Teglio, patria d’origine nel pizzocchero, nulla ci azzecca. Si potrebbe poi far notare che in Italia come Gruviera, più che il Gruyère, sia identificato il famigerato Emmentaler coi buchi: e fare una carbonara con l’uno o con l’altro darebbe luogo a esiti molto diversi, stante la maggiore aromaticità del vero Gruyère. Cesari, solo per aver raccontato questa curiosità epocale, è stato preso a male parole. Addirittura minacciato di morte. Ecco, mangiamo la carbonara vera, con l’uovo liquido e il guanciale, ma lasciamo stare chi si limita a raccontare le cose, per quanto eretiche possano sembrare.
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