Il New York Times riporta una ricetta della famosa pasta romana, griffata Roscioli. Però suggerisce di non farla con la pasta al dente. Non sarà mica che la giornalista avrà voluto dare un consiglio non richiesto e più americano che italiano?
Tommaso Farina
La pasta cacio e pepe, classico della cucina povera romana de Roma, è diventata da tempo un totem intoccabile. E figuriamoci che succede se qualcuno ci dice che la pasta non dev’essere al dente. Se poi questo qualcuno è un americano, il terremoto è quasi garantito. Gli americani, più che abitanti della terra che ospita il maggior numero di alternative culinarie al mondo (ci riferiamo ai ristoranti delle grandi città, dove si può mangiare filippino, indonesiano, peruviano o armeno senza soverchie difficoltà), per l’italiano medio passano ancora per un popolo che “non sa mangiare”, e che per hobby ha lo sfascio e la distruzione di ricette già perfette in origine. Certo che a volte ci mettono del loro…
Ma che c’entra la cacio e pepe? C’entra eccome. L’illustre New York Times nella sua rubrica culinaria ne ha presentato la ricetta, presa di peso da un grande nome della cucina romana: Pierluigi Roscioli. Roscioli, nella Città Eterna, ha una spettacolare salumeria in via dei Giubbonari. Una salumeria che fa anche da ristorante, tanto che anni fa si aggiudicò la nomea di artefice della miglior carbonara di Roma. Ma Roscioli è noto anche a New York: difatti, nella Grande Mela ha aperto da poco Roscioli NYC, che si autodefinisce ‘A Roman Institution in the heart of SoHo’. Dunque, chiedere la ricetta a loro era quantomeno doveroso per un giornalista che non perdesse il polso dell’attualità. Eric Kim, che ha scritto l’articolo, riporta la nota di Julia Moskin, che ha materialmente raccolto e adattato la ricetta. Ed ecco che lì scoppia il busillis: “A differenza di molte ricette, qui la pasta dovrebbe essere ben cotta, e non al dente; dopo l’aggiunta del formaggio, non si cuocerà ancora”. Una precisazione davvero curiosa, e francamente poco comprensibile. Ok, la pasta non cuoce più, è vero. Ma perché non farla al dente? La Moskin, scrivendo questo, fa riferimento alla pratica di scolare la pasta un po’ prima, per ultimarne la cottura in padella. Ma dice, e giustamente, che con la cacio e pepe questo non si fa: e nessuno l’ha mai fatto, nemmeno qualche anno fa, quando era diventato costume ‘risottare’ perfino il caffellatte.
La cacio e pepe, in Italia, è diventata oggetto del contendere di veri e propri scontri all’arma bianca nel microcosmo degli appassionati mangiatori. Per esempio, i puristi ritengono assolutamente sacrilego (e con ragione, mi sento di precisare per quel che riguarda me) facilitare la formazione della cremina di formaggio con aiutini come l’aggiunta di olio, seppure extravergine. I più accorti predicano una cacio e pepe equilibrata nella consistenza: non totalmente ‘polverosa’ di formaggio, ma neanche cremosa al punto da creare un inguacchio. La variante sulla cottura della pasta ancora mancava. Non sapremo mai se è stato lo stesso Roscioli a dire di non cuocerla al dente o un’idea della Moskin, ma il fatto è che la ricetta, peraltro perfetta in tutto, l’ha fatto presente. Certo è che gli americani, almeno si dice, preferiscono la pasta non troppo tenace. Quindi, è altamente probabile che sia un suggerimento di stretta origine yankee. Finita lì. La cosa è stata ripresa da svariati giornali online, tra cui il Gambero Rosso. La canea che c’è stata sui social, con grande dovizia di luoghi comuni, possiamo anche risparmiarvela perché potete immaginarla. Consiglio spassionato: usate la ricetta di Roscioli. È ottima. La pasta, però, io la cuocio bene al dente, e in certi casi ‘al chiodo’, come fa Arcangelo Dandini, uno dei massimi ristoratori di Roma.