La chef ha recentemente aperto due botteghe di dolci e gelati a Milano. Un progetto imprenditoriale pensato per aiutare le donne vittime di violenza. Ne parliamo in un’intervista. Che si rivela un’occasione per discutere di inclusione sociale e alta cucina.

 

di Elisa Tonussi

 

Ha inaugurato lo scorso 31 gennaio, all’interno del Mercato Comunale Isola di Milano, Io sono Viva, dolci e gelati, l’ultima avventura imprenditoriale di Viviana Varese, una stella Michelin al Viva di Milano e recentemente insignita del premio ‘Champions of change’ dalla 50 Best Recovery. La chef, da sempre impegnata nel sociale con campagne a favore della comunità Lgbtq+, questa volta si schiera accanto alle donne vittime di violenza. Con una gelateria artigianale e pasticceria – anzi, due (il secondo negozio è stato aperto l’8 marzo in via Kramer) – offre alle donne maltrattate una possibilità di formazione professionale, indipendenza economica e di riscatto personale. Da qui, il nome della pasticceria: Io sono Viva, a richiamare il nome della chef e a gridare che, per le donne che hanno subito maltrattamenti, è tempo di riacquistare valore e libertà. La bottega propone dolci e gelati artigianali. E la squadra che la gestisce è tutta al femminile: è stata formata grazie anche alla collaborazione con Cadmi – Casa accoglienza delle donne maltrattate, a cui verrà donato 1 euro per ogni chilogrammo di gelato venduto. Abbiamo raggiunto telefonicamente la chef, che ci ha spiegato di cosa si tratta. La conversazione, però, si è rivelata un’occasione per parlare anche di inclusione sociale, donne e alta cucina.

 

Come è nato il progetto Io sono Viva?

È nato durante l’ultimo lockdown perché volevo creare un progetto lavorativo che non fosse strettamente legato alla professionalità delle persone. Volevo reinventarmi e al tempo stesso aiutare il prossimo. Visto che l’unica cosa che so fare è cucinare, ho optato per un negozio di dolci e gelati, dove assumere persone che posso formare facilmente. Ho pensato di sostenere le donne vittime di violenza.

 

Come forma le donne coinvolte nel progetto?

Si fa tutto sul campo. Le assumo e iniziano a fare cassa, poi passano a confezionare i dolci, a decorarli e a preparare i coni gelato, operazione che non è affatto semplice! La nostra formazione è strettamente legata al lavoro. L’obiettivo è renderle del tutto autonome dal punto di vista professionale.

 

E lei cosa sta apprendendo da questa esperienza?

È un progetto umanamente molto bello e toccante. Richiede ascolto e comprensione delle dinamiche in cui sono coinvolte tutte le donne, a partire dalle più semplici necessità quotidiane, come l’organizzazione degli orari: qualcuna ha un figlio a cui badare a casa. Alcune ragazze, comunque, si sono già dimostrate estremamente determinate e desiderose di crescere: sono certa che sapranno togliersi qualche soddisfazione.

 

È inclusivo il mondo della ristorazione?

No. E non lo è mai stato.

 

Perché?

Storicamente l’alta ristorazione è stata fatta dai francesi e nel ‘900 le donne non sono state incluse nelle brigate. Credo che per alcuni uomini le donne in cucina rappresentano un problema: purtroppo le cucine professionali sono spesso ambienti militari, dove c’è altissima tensione e aggressività e, quando ci sono delle donne in mezzo, questo sistema è di difficile applicazione. Ma stiamo andando avanti! Sono anni che si parla di questo sistema e che si cerca di far entrare sempre più donne nelle cucine professionali. Alcuni ristoranti sono enormemente migliorati.

 

Crede che stiamo ancora subendo un retaggio così antico ormai?

Sì. L’alta cucina è un esercito. Il gergo è militaresco. L’aggressività è quella dei soldati. Abbiamo creato questo genere di ambiente, che è molto difficile da scardinare. Alcuni ristoranti, dove persiste questa impostazione di lavoro, continuano a perdere personale: sempre più persone non vogliono più fare questo lavoro, figuriamoci farlo a certe condizioni! E sto parlando di ragazze e ragazzi.

 

Come ha impostato allora il lavoro nella sua cucina?

Nella mia cucina c’è rigore, responsabilità e una gerarchia, che è necessaria. Ma non c’è distinzione tra uomini e donne: ci sono ragazze e ragazzi di tutte le religioni. Ciascuno, a seconda della propria esperienza, ha maggiori o minori responsabilità. Ci sono sia maschi sia femmine a ricoprire i ruoli più importanti in cucina.

 

Non dovrebbe essere questa la normalità?

Proprio così. Per una donna oggi non è impossibile lavorare in un ristorante stellato – alla mia epoca, praticamente lo era. Vorrei, però, ribaltare la situazione: vorrei donne che sappiano tirar fuori la grinta per affrontare le ostilità! Non dobbiamo più pensare che noi donne non possiamo entrare nell’alta cucina. Anzi, noi donne possiamo farlo e dobbiamo farlo, se ne abbiamo il coraggio. A prescindere dal fatto che alcuni ambienti possano essere brutali. Quello del cuoco è un mestiere impegnativo, ma, se lo ami, dà grandissime soddisfazioni.

 

Si deve quindi iniziare dalle scuole di formazione?

Certo, ma anche e soprattutto dalle famiglie e dai retaggi legati alla figura femminile in casa. È importante ricordarsi cosa è stato il femminismo e cosa hanno combattuto le nostre mamme per i diritti di cui godiamo oggi. Dobbiamo essere orgogliosamente donne e femministe nuove.

 

Come traduce nei suoi piatti il suo essere orgogliosamente donna?

La mia cucina esprime me stessa, che poi è il concetto di Viva: un ristorante aperto e solare. Sicuramente i miei piatti esprimono tantissimo il colore e, attraverso il colore, la libertà di espressione. Comunque cerco di non affogare i miei clienti nel mio pensiero: il piatto deve essere prima di tutto buono e il servizio attento.

 

C’è un piatto che più la rappresenta?

La pasta con le patate sicuramente. La propongo ogni anno in diverse declinazioni, rivisitandola in chiave moderna.

 

Viviana Varese, quindi, è Viva?

Assolutamente sì. Malgrado il Covid e la guerra.

 

Qual è dunque il suo prossimo progetto?

Andrò a breve a riaprire il ristorante al boutique hotel Country House Villadorata di Noto. Riprenderò il concetto dell’anno scorso, rivisitandolo leggermente, con una cucina nuova, uno staff rinnovato e molto forte. Intendo lasciare le redini in mano a qualcun altro, tanto che l’executive chef è il mio ex sous chef, Matteo Carnali. In pasticceria, invece, ci sarà Isa Brenna, che è stata la mia sous chef storica. È il mio nuovo modo di affrontare la carriera: ho 50 anni, è arrivato il momento di fare un passo indietro e lasciar andare avanti i giovani!