L’assemblea Fipe, che si è svolta lo scorso 10 novembre, ha consegnato un quadro del comparto a tinte fosche. 30mila attività sono a rischio chiusura. Ma oltre agli aiuti statali, occorrono una riqualificazione del lavoro nella ristorazione e una nuova consapevolezza delle imprese.

 

di Elisa Tonussi

 

L’inflazione non dà tregua al settore della ristorazione. Al numero di attività che hanno chiuso e di professionisti che hanno virato verso altri settori durante la pandemia, andrebbero ora a sommarsi 30mila imprese a rischio chiusura con conseguente perdita di almeno 130mila posti di lavoro. A lanciare l’allarme è stata, ancora una volta, la Fipe, che si è riunita a Roma, nel corso dell’assemblea annuale, lo scorso 10 novembre.

 

A ottobre 2022 risultano attive circa 314mila imprese di ristorazione, con un saldo negativo nei primi nove mesi dell’anno che si attesta a -10.951 attività. Che vanno ad aggiungersi alle 45mila unità perse nel biennio nero 2021-2022. Una conseguenza di questa situazione? La generale perdita di fiducia delle imprese, che, dopo aver recuperato ottimismo nel 2021, hanno subito la notevole batosta dei rincari.

 

È vero: le imprese devono essere aiutate. E qui le richieste della federazione sono chiare e precise: provvedimenti emergenziali di rafforzamento e di estensione temporale dei crediti d’imposta sui costi energetici, rateizzazione delle bollette, nuovi interventi di sostegno alla liquidità delle imprese, anche con gli strumenti di garanzia pubblica. La federazione chiede inoltre che venga definito un Piano energetico nazionale che preveda la diversificazione delle fonti e dei fornitori, con l’implementazione di un ‘Recovery fund energetico’ europeo. È altrettanto vero, però, che è necessario che vengano affrontati due nodi cruciali per il futuro del settore. E a evidenziarli è la Fipe stessa: il primo è politico e riguarda la riqualificazione del lavoro nella ristorazione, il secondo coinvolge attivamente le imprese, che devono sapersi reinventare adeguandosi alle contingenze.

 

Il tema del lavoro è senza dubbio la grande emergenza emersa con il Covid. Nel 2021 è stata registrata una perdita di 91.500 contratti a determinato e di 107.500 contratti a tempo indeterminato. Nel 2022, inoltre, calano le previsioni di assunzione, mentre cresce al 56% la quota di assunzioni che le imprese giudicano difficili da realizzare, un valore superiore di 9 punti percentuali rispetto a un anno fa. In poche parole, manca personale, soprattutto camerieri di sala e baristi. Il problema della penuria di manodopera, però, affonda le proprie radici in anni meno recenti. Ed è legata anche alla grande fuga dagli istituti alberghieri (di cui leggerete sul prossimo numero della rivista in uscita a breve): sempre meno ragazzi desiderano intraprendere una professione nel mondo della ristorazione. La Fipe, infatti, sottolinea che non solo sono necessarie politiche attive in grado di riqualificare, innovare e investire sulle competenze vecchie e nuove, ma che occorrono anche percorsi di orientamento per i giovani verso percorsi formativi e scolastici in grado di dare prospettive occupazionali. È importante, in tal senso, contrastare anche il dumping contrattuale che interessa il settore, vale a dire, offerte contrattuali al ribasso che danneggiano il lavoro, applicando Ccnl non rappresentativi del settore o delle mansioni effettivamente svolte.

 

Si diceva, però, che occorre anche una nuova consapevolezza da parte delle stesse imprese. Ha infatti dichiarato Lino Stoppani, presidente della Fipe: “È in momenti come questo che diviene tanto più necessario intervenire sui processi, sulla logistica, sugli orari e i tempi di servizio, sulla organizzazione e gestione del personale, sulla determinazione dei prezzi, e sull’implementazione di nuovi servizi. Nessuno, se non noi stessi, possiamo risolvere il problema della bassa marginalità, che a sua volta nasce dalla difficoltà di associare il prezzo al valore dell’offerta, impedendo di trasferire correttamente sui listini le dinamiche dei costi e le legittime aspettative di profitto”. È tempo dunque per le imprese di reinventarsi all’insegna della sostenibilità: economica, naturalmente, e non solo, affinché sappiano incontrare le nuove sensibilità di consumatori e professionisti.

 

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