A tu per tu con Guido Paternollo, che è da poco alla guida del Pellico 3, ristorante dell’hotel Park Hyatt di Milano. Qui propone una cucina “stagionale, mediterranea e non cerebrale”.

 

di Elisa Tonussi

 

Dopo due anni e un investimento da 20 milioni di euro, il Park Hyatt Milan, l’hotel di lusso accanto alla Galleria Vittorio Emanuele, nel cuore di Milano, ha inaugurato, lo scorso 26 maggio, la struttura completamente rinnovata. Sono state rifatte le cucine e le camere, dai pavimenti alle tappezzerie. C’è inoltre una nuova spa. Ma, soprattutto, un nuovo chef al Pellico 3, il ristorante dell’albergo, che ha cambiato pure il nome: è Guido Paternollo. Un cv di tutto rispetto il suo: trentenne, ingegnerie votato alla cucina, ha lavorato con Enrico Bartolini e poi a Parigi, per quattro anni, con nomi del calibro di Alain Ducasse e Yannick Alléno. A Paternollo il compito di prendere il posto di Andrea Aprea, che l’anno scorso ha lasciato le cucine del Vun – allora così si chiamava il ristorante del Park Hyatt – insignito di due stelle Michelin. Ne parliamo insieme. Con un occhio rivolto al futuro.

 

È da poco iniziata per lei una nuova avventura al Pellico 3: una bella responsabilità…

Lo è sicuramente! Per fortuna non solo da solo. Ho una brigata molto forte: i due chef di cucina, Mario Musiello e Andreas Karapaos, e lo chef pasticcere Alessio Gallelli mi danno una grande mano. La responsabilità, con loro, pesa meno. Dopo vari anni in Francia, però, tornare a Milano, la mia città natale e dove sono cresciuto, e pure in una location così importante, è molto stimolante.

 

Ha subito citato la sua brigata. Come è avvenuta al scelta dei collaboratori?

È avvenuta in maniera molto naturale. Quando sono tornato a Milano, inizialmente, volevo aprire un ristorante di proprietà insieme a uno dei miei due chef di cucina, Mario Musiello. Quando ho invece ricevuto la proposta di Park Hyatt gli ho chiesto di seguirmi. L’altro chef di cucina, Andreas Karapaos, lavorava con me al Plaza Athénée di Parigi. È stata più ostica la scelta dello chef pasticcere, Alessio Gallelli, con cui non avevo mai lavorato. Ma ha grande esperienza. E, quando ci siamo conosciuti, si è subito creata un’ottima intesa.

 

Parliamo però della sua formazione. Dal Politecnico alla cucina, perché?

È complesso spiegare perché io abbia preferito la cucina. Ho avuto la fortuna di poter scegliere. Dopo l’università non ero convinto del percorso che avevo intrapreso, che non mi appassionava particolarmente. Dai 16-17 anni, però, mi ero innamorato della cucina e del cibo. Dunque ho deciso di prendermi sei mesi per capire se potesse essere la mia strada. Ho avuto la fortuna di essere preso in stage da Enrico Bartolini al Mudec, anche se il mio curriculum valeva zero, perché non avevo alcun tipo di esperienza. Dopo poco tempo, nonostante il lavoro fosse duro, avevo capito: era quella la strada giusta.

 

Ci dica di più dell’esperienza con Bartolini.

Da Enrico mi sono trovato molto bene: è stato il primo a dirmi fiducia. E con lui il suo ex chef di cucina, Remo Capitaneo. Sono entrato nelle loro cucine che nemmeno sapevo tenere in mano un coltello, ma mi hanno dato tutte le basi per poter affrontare le successive esperienze francesi. Sono stati tre anni molto intensi, perché per Bartolini era una sorta di nuova apertura: si era da poco trasferito al Mudec da Cavenago di Brianza (Mb) proprio con l’intenzione di prendere le tre stelle Michelin. C’era dunque molta pressione e voglia di arrivare. Ma è proprio quello che mi è servito maggiormente: ho avuto modo, così, di bruciare tante tappe. Sentivo però l’esigenza di conoscere altro.

 

E qua arriva il trasferimento Oltralpe.

Esatto. Da sempre esiste il mito della cucina francese. Ho dunque deciso di andare proprio lì, in Francia. Inizialmente ho fatto una breve esperienza, durante la stagione estiva, da Marc Veyrat alla Maison des bois, in Alta Savoia, che all’epoca era tristellato. La brigata era quasi tutta italiana, ma lì ho avuto modo di introdurmi alla cucina francese. In seguito, mi sono spostato a Parigi al Pavyllon Ledoyen di Yannick Alléno e poi da Alain Ducasse al Plaza Athénée .

 

Cosa porta del suo bagaglio formativo al Pellico 3?

Di Enrico Bartolini porto tutto quanto concerne la cucina italiana e le sue basi. Alléno, invece, mi ha trasmesso l’amore per le salse e l’importanza del combinare materie prime diverse. Da Ducasse, infine, ho appreso tutto quanto concerne la naturalità di un piatto, dunque le verdure e i vegetali.

 

Tre parole per descrivere la sua cucina?

Stagionale, sicuramente. Poco cerebrale: cerco di fare una cucina che arrivi subito all’ospite, che non deve sforzarsi di capire cosa stiamo facendo. Il gusto è la prima cosa che deve arrivare a chi sta a tavola.

 

Si può parlare di cucina emozionale?

L’aggettivo emozionale, in realtà, mi fa pensare a una cucina d’istinto. Mentre i nostri menù hanno alle spalle uno studio intenso, che dura almeno un paio di mesi. È ovvio aspirare ad arrivare a una cucina d’istinto, ma per realizzarla occorre avere tantissime conoscenze. E io e i miei collaboratori siamo ancora troppo giovani per questo.

 

E la terza parola?

Direi mediterranea. Da intendersi in senso ampio. Avendo lavorato anche in Francia con chef che, a loro volta, avevano fatto esperienze in tutto il bacino mediterraneo, ho potuto apprezzare l’utilizzo di prodotti non solo italiani, ma, appunto, di tutte le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo.

 

Come è nato il nuovo menù del Pellico 3?

Ora siamo già al secondo menù. Abbiamo aperto infatti il 27 aprile con un menù primaverile per via della stagionalità degli ingredienti. A giugno abbiamo cambiato la carta adattandola all’estate.

 

C’è un piatto nel menù che meglio rappresenta la sua cucina?

Credo che non debba essere io a sceglierlo. Il lavoro di noi chef è servire l’ospite. Ed è proprio l’ospite a farci capire quale piatto meglio rappresenta le idee di cucina che proponiamo con i nostri piatti. Nel menù del Pellico, ad esempio, c’è un piatto che abbiamo scelto di tenere, semplicemente adattandolo alla stagione estiva: il branzino con un risotto di piselli, che ora proponiamo con i ceci freschi. Il piatto ha ottenuto un ottimo riscontro.

 

Qual è l’obiettivo professionale di Guido Paternollo?

Punto, nel breve termine, a riuscire a far sì che tutti gli outlet, cioè i ristoranti, del Park Hyatt funzionino bene e che siano sani a livello puramente economico. E, cosa ancora più importante, riuscire ad avere una brigata solida: io, così come Mario, Andrea e Alessio, siamo giovani, siamo dunque quasi coetanei degli altri ragazzi dello staff. Perciò la nostra figura non è avvertita come distante dalla loro. Inoltre, l’F&B dell’hotel è molto forte, per cui abbiamo modo di dedicarci moltissimo alla cucina e ai ragazzi. Questo aspetto li spinge a voler rimanere con noi. Spero, poi, per i prossimi anni, che tutto questo continui. E che si riesca, con gli chef di cucina e lo chef pasticcere, a creare un team forte, in modo da affrontare senza difficoltà ogni nuovo progetto, anche all’interno di Park Hyatt, che si dovesse presentare.

 

E quel progetto di aprire un ristorante di proprietà?

Penso che tutti i cuochi coltivino il sogno di avere un’attività di proprietà che funzioni bene. Per me, mettere in gioco il mio nome è già stato un passo importantissimo. Per il futuro, chissà. Non so nemmeno se, da grande, sarò ancora a Milano!