Un’intervista a tutto tondo con Pietro Leemann, Sauro Ricci e Raffaele Minghini, chef del ristorante Joia di Milano. Una conversazione sul passato, il presente e il futuro del locale, da sempre all’avanguardia con una proposta gastronomica alternativa.

 

di Elisa Tonussi

 

Conversare con gli chef Pietro Leemann, Sauro Ricci e Raffaele Minghini è un’esperienza rara, mai banale, che spalanca nuovi orizzonti. Non si parla semplicemente di cucina, né di ingredienti e piatti, ma pure della loro dimensione filosofica e spirituale, frutto di una profonda riflessione e consapevolezza. Nel confronto, i tre chef del Joia, il ristorante vegetariano, aperto da Leemann a Milano nel 1989, che dal 1996 vanta una stella Michelin e dal 2020 anche quella Verde, esprimono chiaramente la propria comunione di pensieri. Non a caso saranno Ricci e Minghini a gestire il ristorante, quando Leemann, nei prossimi mesi, si allontanerà dalle sue cucine. Abbiamo così ripercorso insieme la storia del Joia, tra passato, presente e futuro.

 

Mi rivolgo a chef Leemann, come ha maturato la decisione di lasciare il Joia?

Pietro Leemann: È una decisione che sto maturando da alcuni anni. Il tempo passa ed è opportuno progettare una trasformazione della propria vita. Sono dell’idea che, a un certo punto, il testimone debba essere passato. Sono lieto del fatto che ci sia una continuità con Sauro e Raffaele. Da una parte dunque nutrivo il desiderio di fare spazio ad altre persone, dall’altra di impostare la mia vita in modo diverso con progetti nuovi.

 

Cosa ci sarà nel suo futuro?

PL: I miei progetti sono evolutivi, cioè di evoluzione personale, ma di fatto sono una prosecuzione di quanto fatto al Joia in questi anni. Ho innanzitutto aperto un negozio di alimenti biologici a Locarno insieme a mia figlia. Sto poi sviluppando un progetto molto importante all’interno di una comunità in una valle svizzera, dove mi ritirerò e vivrò in modo più introspettivo e meditativo. La mia relazione con il Joia, comunque, non si interromperà. Sarà sempre il cuore pulsante delle mie attività, gestito, però, da Sauro e Raffaele.

 

Ora, però, vorrei riavvolgere il nastro e tornare a quando lo ha aperto: quali motivazioni la spinsero all’epoca?

La sala del Joia. Ph: Manuela Vanni.

PL: Tornavo da un’esperienza, durata alcuni anni, in Oriente, in particolar modo in Giappone, Cina e India, dove la riflessione su ciò che desideravo essere, e mangiare, si è focalizzata: ho capito che la mia indole era vegetariana. Da qui il desiderio di creare una realtà che la rispecchiasse. In quegli anni, era un’idea nuova e, se esisteva, era legata alla macrobiotica, a forme di pensiero ascetiche, ma poco gastronomiche. Il mio desiderio, invece, era di avvicinare più persone al mondo vegetale con una cucina gourmet, di piacere e di qualità. L’intento era di portare la società a una maggiore riflessione verso un’alimentazione sana, consapevole e quindi vegetariana.

 

Come nel tempo si è evoluta ed è cambiata la sua idea di cucina?

PL: La cucina del Joia è molto legata alle mie riflessioni ed evoluzioni personali, quindi negli anni si è trasformata, anche grazie alle persone che sono state con me. Il lavoro in cucina è opera di una squadra, che guarda come si trasforma il mondo e con lui cambia.

 

Quando il Joia ha aperto era senza dubbio rivoluzionario, come nel tempo ha visto cambiare l’approccio dei commensali al suo tipo di cucina?

PL: Trovo molto interessante il modo in cui si è trasformata la società. In generale il pubblico è diventato molto più consapevole. Il cliente del Joia, oggi, arriva preparato all’esperienza gastronomica che sta per vivere. C’è anche maggiore sensibilità alle tematiche ambientali e da quel punto di vista siamo diventati pure un simbolo.

 

Mi rivolgo ora agli chef Ricci e Minghini, qual è stato il vostro percorso prima del Joia e come è avvenuto il vostro approdo al ristorante?

Sauro Ricci: Ho frequentato la scuola alberghiera e completato la mia formazione tecnica assecondando i miei interessi filosofici e culturali. Mi sono infatti laureato in Antropologia nel 2010. Sono così venuto a conoscenza dei principi Yin e Yang, quindi mi sono confrontato con le discipline orientali, che ho capito di poter applicare anche alla cucina. Ho completato gli studi in Portogallo. Tornato in Italia, cercavo una realtà unisse i miei interessi culturali e gastronomici. Quando Michelino Gioia, chef del ristorante Il Pellicano, mi ha parlato della sua esperienza al Joia, ho capito che il ristorante di Leemann potesse essere la mia strada. Ho contattato Pietro. E in breve tempo sono sbarcato nella sua cucina.

 

Raffaele Minghini: Ho studiato come perito meccanico, ma, durante i primi anni delle superiori, ho conosciuto le materie umanistiche e me ne sono innamorato. Perciò mi sono laureato in Ermeneutica filosofica. Per qualche anno ho lavorato nell’azienda di famiglia, poi ho deciso di lasciare tutto e di seguire le mie passioni. Di conseguenza, ho intrapreso un percorso di studi tecnici come cuoco. Sentivo la necessità di avere una formazione che potesse darmi anche strumenti di precisione e coerenza. Sono così entrato in contatto con chef Leemann: il colloquio fu un confronto molto bello sulle nostre inclinazioni teologiche. Il Joia era il mio posto: avrei potuto vivere l’esperienza professionale che stavo cercando, in un luogo in cui, al tempo stesso, avrei potuto confrontarmi con una dimensione filosofica rara.

 

Quale piatto tra tutti quelli proposti a Joia nel tempo è per voi il più significativo?

PL: La mia scelta ricade su ‘Sotto una coltre colorata’, creato nel 2006. Rappresenta un paesaggio di forma e di contenuto: si ispira a un luogo che frequento spesso, un bosco ameno, oltre un ponte che attraversa un fiume, dove mi reco per riflettere e ispirarmi. È una schiuma impalpabile di latte, che nasconde elementi vegetali di gusti e consistenze diverse, che cambiano di stagione in stagione.

 

RM: Io scelgo ‘Impermanenza’. È uno dei primi piatti su cui Sauro e Pietro mi hanno dato la possibilità di lavorare in autonomia. È una tortina delicata e croccante, che al tavolo viene rotta con un surikogi, il pestello in legno tipico della cucina giapponese, in un atto delicato e al tempo stesso violento. Al di sopra viene quindi servita con una salsa, che cambia completamente l’aspetto del piatto. Il concetto che sta dietro al piatto è appunto quello di impermanenza della nostra opera: lavoriamo molte ore per creare qualcosa che, in pochi istanti, viene consumato. Questo piatto trasmette la dimensione effimera della materia e fa comprendere che, dunque, nel quotidiano, è il caso di non prendersi troppo sul serio: insomma, non salviamo vite, né costruiamo ponti, la nostra cucina deve far star bene le persone.

 

SR: Non costruiamo ponti materiali, ma certamente ponti culturali! La nostra cucina dialoga con le altre culture, sia con le tecniche sia con i gusti. Per questo motivo cito un piatto che non esce mai dal menù: ‘Ombelico del mondo’. E’ la nostra declinazione del risotto, che è espressione della cultura italiana. Il riso, però, è diffusissimo nel mondo e parla dell’umanità: i cereali sono centrali nell’alimentazione dei popoli, che li hanno da sempre trattati in moltissimi modi, e sono inseriti perfino all’interno di processi rituali e religiosi. Proponiamo il risotto mantecandolo con creme di verdure di stagione, spesso con note di zenzero e succo di limone. Attualmente proponiamo ‘Ombelico del mondo’ in un doppio servizio: con un arancino e con un risotto nascosto dentro una ciotola con cime di rapa, una manteca di olio alle erbe, cavolfiore e una crescenza di anacardo. Abbiamo inserito anche una foglia d’oro come omaggio a Gualtiero Marchesi, che è stato maestro di chef Leemann: è una forma di riconoscenza.

 

Da sinistra: Ombelico del mondo – Sotto una coltre colorata – Impermanenza Ph: Lucio Elio

 

Recentemente chef Ricci mi ha rivelato che, secondo lui, l’ingrediente del futuro sarà la consapevolezza. Sarà dunque ‘consapevolezza’ la parola chiave del futuro del Joia?

RM: Il processo di creazione di consapevolezza è stato avviato da Pietro decenni fa. Spesso ci confrontiamo con i nostri ospiti e ancora affrontiamo alcuni – comprensibili – pregiudizi sulla cucina vegetariana. Ci accorgiamo, però, di averli pure conquistati con la nostra cucina e di aver offerto loro un’alternativa.

 

SR: La consapevolezza dona una certa capacità di analisi del nostro operato e della sua qualità, dunque di previsione sul futuro. Aggiungerei pure che ingrediente base delle nostre preparazioni sarà anche la gratitudine: verso i nostri insegnanti, verso Pietro, verso i nostri clienti e, soprattutto, verso l’unione di pensieri che ci unisce. Ciò fa sì che il cibo che offriamo possa nutrire non solo a livello biologico, ma pure a livello psichico e spirituale.

 

In foto, da sinistra: Raffaele Minghini, Sauro Ricci e Pietro Leemann. 

Ph: Manuela Vanni 

 

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