Il Rapporto 2021 sulla Ristorazione di Fipe traccia un quadro a fosche tinte: per tornare a fatturati vicini a quelli del 2019, ai ristoranti occorrerà forse ancora un anno. C’è ancora troppa sfiducia e incertezza tra la clientela, per tante cause.

 

di Tommaso Farina

 

La carica dei 194mila. Più che una carica, un corteo funebre. È il corteo delle persone impiegate nel mondo della ristorazione che, a partire dal 2019 e dunque in epoca di pandemia, hanno perso il posto di lavoro. È un triste bollettino, quello enunciato dal Rapporto 2021 sulla Ristorazione presentato pochi giorni orsono dalla Federazione Pubblici Esercizi. Queste 194mila persone, di cui molte donne, in grande maggioranza lavoravano nei ristoranti, ma anche in bar, discoteche, mense e catering. Il bello è che, nel frattempo, il celeberrimo Gordon Ramsay, chef pluristellato e, negli ultimi anni, star televisiva diventata proverbiale per le sue terribili sfuriate, alla radio ha ammesso che sì (bontà sua!) la pandemia è stata “devastating” (e qui non serve traduzione), ma che ha avuto pure un risvolto positivo: ossia che “the crap’s gone”, le schifezze e i cattivi ristoranti hanno chiuso. Naturalmente secondo lui.

 

In compenso, non se la passano benissimo neppure molti di quelli che tuttora resistono, crap o no. Secondo Lino Stoppani, che ha presentato il rapporto Fipe, in Italia il 62% degli esercenti, ossia circa sei ristoranti su dieci, riuscirà a raggiungere fatturati paragonabili a quelli pre-pandemia solo l’anno prossimo, nel 2023. Il perché, è presto detto: prima la crisi delle materie prime, ora quella dell’energia, con relative bollette aumentate in modo stratosferico. In questi ultimi giorni, la benzina è viceversa diminuita, ma la situazione è ben lungi dall’essersi sistemata. Tutte queste concause hanno provocato grossi aumenti nella spesa energetica, eppure molti ristoranti non hanno voluto colpire il consumatore, e non hanno ritoccato i listini: alcuni, raggiunti da noi per telefono nei mesi scorsi per un’opinione sull’argomento, ci hanno proprio detto che non avevano intenzione di farlo, e difatti il 56,3% di bar e ristoranti non prevede di rivedere a breve il rialzo dei propri listini prezzi.  Nel febbraio 2022, secondo Fipe, lo scontrino medio è salito solo del 3,3% rispetto a un valore generale dei prezzi aumentato del 5,7%. Ma per quanto si potrà continuare? Oltretutto, sul calo degli affari ha inciso, e parecchio, un clima diffuso di sfiducia tra gli italiani, ossia i clienti: tra il Coronavirus, il Green Pass, vaccini sì e vaccini no, la vita che aumenta, le entrate che diminuiscono, la benzina, il gas, la luce e ora anche la guerra in Ucraina, in certi casi la voglia di uscire a cena scende sotto i tacchi. Mettiamoci poi eventi isolati ma oltremodo emblematici: un ristoratore russo di Roma pare abbia dovuto cambiare la sua insegna, nientemeno, per minacce ricevute in seguito al clima arroventato per gli ultimi avvenimenti. E cose del genere certo bene non fanno, al conto economico di un’azienda, per giunta in un settore duramente provato.

 

Cosa si può fare? Per Stoppani, a questo punto, sarebbe imperativo provare, per esempio, ad allentare i lacciuoli imposti dalle norme sanitarie pandemiche, come suggerisce lui stesso: “Stante così la situazione, non è più rinviabile l’eliminazione delle misure restrittive adottate in Italia per mitigare la pandemia. Misure che oggi, grazie ai vaccini, possiamo e dobbiamo cancellare, anche per ricostruire un clima di fiducia in grado di riavviare i consumi in forte sofferenza. Senza produttività non si fanno investimenti, non si attraggono capitali e non si remunera meglio il lavoro”. Naturalmente, nessuno può sapere se una simile misura servirà. C’è un solo modo: provare.