Lo chef toscano, ma naturalizzato milanese, ci ha lasciati. I suoi piatti ci appagavano dal 1962. La sua zuppa etrusca e gli spaghetti col cipollotto, serviti nel suo ristorante di via Montecuccoli, restano a ricordare un grande della cucina italiana. Ora tocca agli eredi. E sono i migliori che potesse sperare.
di Tommaso Farina
Aimo Moroni, 91 anni portati con gagliardia, pochi giorni fa ci ha lasciato. Era arrivato a Milano nel 1946, a 12 anni, dalla povertà della montagna toscana. E si era fatto da solo. Sotto la Madonnina Aimo cominciò vendendo le castagne cotte per strada. E finì nell’empireo della ristorazione cittadina, celebrato da tutti.
Quand’ero bambino, mio padre comprava la Michelin e la Guida dei Ristoranti dell’Espresso. A me, più che lo stile stringato della Rossa, piacevano le recensioni del settimanale, in qualche caso deliziosi gioielli di giornalismo. E mi appassionavano i simboli dei cappelli. Mi divertivo a cercare i ristoranti migliori, quelli che si riconoscevano appunto dalla sovrabbondanza di questi cappelloni di valutazione. A Milano ce n’erano almeno tre: Gualtiero Marchesi, Aimo e Nadia e La Scaletta di Pina Bellini. Sappiamo tutti com’è finita: il Maestro Marchesi, poi anche lui passato a miglior vita, si trasferì con pentole e padelle all’Albereta della famiglia Moretti in Franciacorta; La Scaletta invece chiuse mestamente, per poi riaprire, ma mai con gli antichi fasti. Aimo e Nadia è ancora lì, ed è tuttora una delle tavole più buone di Milano. Va bene, ha cambiato nome e si chiama Il Luogo di Aimo e Nadia. Nel 2012, ha anche cambiato cuochi, ma il duo delle meraviglie Fabio Pisani-Alessandro Negrini ha seguito la strada maestra tracciata dal sommo Aimo, sotto l’amorevole vigilanza di Stefania, la grintosissima figlia. E ancora adesso, in questo angolo di periferia che oggi non è di sicuro centralissimo, ma nel 1962, al momento dell’apertura, doveva sembrare pure più lontano, si mangiano sempre la zuppa etrusca e gli spaghetti col cipollotto. Come dire, le invenzioni più classiche firmate Moroni.
Io Aimo l’ho conosciuto poco, direttamente. Ho avuto rapporti più stretti con Stefania, persona di grande simpatia. Ma pure lui, comunicava parecchio di quello che era. Al ristorante di via Montecuccoli è collegato un mio ricordo incancellabile. Nei primi mesi del Duemila stavo cominciando a piccoli passi la mia carriera giornalistica. Non so nemmeno perché, ma avevo accompagnato Marco Gatti, tuttora alla guida del Golosario di Paolo Massobrio e all’epoca firma del quotidiano Libero, a un pranzo in cui una serie di personaggi della cucina avrebbero discusso di un menù da servire nel corso di una fiera gastronomica. Aveva voluto la mia presenza anche un pr giovane e baldanzoso, Stefano Donarini, allora poco più che trentenne, che si occupava appunto delle relazioni di quella fiera coi media. Ebbene: a spingermi davvero a decidere di fare del giornalismo la mia professione furono Marco e Stefano, e questo avvenne proprio mentre sedevo, per la prima volta in vita mia, ai tavoli di un ristorante che fin da bambino vagheggiavo. Due amicizie e una carriera nate lì, e oggi ancora vive dopo 25 anni.
Col tempo, mi sono affezionato al Luogo di Aimo e Nadia. I discussi quadri dell’artista Paolo Ferrari, che adornavano la sala, non piacquero a molti critici gastronomici, mentre a me, modestamente, sembravano notevoli nei loro colori a macchia, vagamente fauve. Al ristorante poi, con ancora il glorioso chef ai fornelli, è legato anche un bel ricordo familiare: la cena per la laurea di mia sorella, nel 2006. In quell’occasione, si poteva quasi respirare il clima accogliente e consolatorio dato da una professionalità inappuntabile. E Aimo ci fece felici.
Oggi, il miglior dono d’addio che gli è stato lasciato è la certezza granitica che la sua creatura, grazie a Stefania, Fabio, Alessandro e ogni singolo membro dello staff, rimarrà in buone, anzi buonissime mani. Testamento più bello non poteva esserci.