Descrizioni dettagliate dei piatti serviti, enunciate con solennità dai camerieri, fanno ormai parte dei riti dell’alta ristorazione. Ma rischiano di mettere in difficoltà gli ospiti. Eppure basterebbe poco farli stare bene.

 

di Elisa Tonussi

 

Ultimamente frequento i ristoranti cosiddetti fine dining con minore assiduità rispetto al passato. Questo non certo per disaffezione: continuo ad amare la cucina gourmet, che trovo essere ancora un interessante spazio di godimento, e pure divertimento, per le papille gustative e non solo. Di recente, però, ho avuto occasione di pranzare in uno storico fine dining monzese, dove io e mio marito abbiamo optato per un percorso degustazione da sette portate dedicato alla cucina siciliana. Il menù si è rivelato eccellente, come da nostre aspettative, e l’esperienza nel suo complesso è stata molto positiva. I camerieri, in particolare, si sono dimostrati molto abili nel trovare un adeguato equilibrio tra un servizio formale, ma non ingessato, concedendosi discreti spazi per scherzare e scambiare qualche battuta con noi al tavolo. Tuttavia mi sono sorpresa trovandomi in difficoltà con un preciso aspetto del servizio: mangiando, di forchettata in forchettata, non ricordavo minimamente che cosa avessi nel piatto.

 

Capite a che cosa mi riferisco? Della dettagliata descrizione, fornita con minuzia dal cameriere, di ciascun elemento del piatto, in pochi istanti, metà era stata cancellata dalla mia testa: e questo profumo? Di quale erba aromatica si tratta? Ottima la salsa, è una riduzione di…? Mi assumo qualche colpa: ultimamente mi dimentico più facilmente le cose, complici le poche ore di sonno a cui mi costringe un bambino piccolo. Non credo, tuttavia, di essere la sola ad avvertire qualche difficoltà, e anche una certa frustrazione. La questione, infatti, non riguarda il solo locale monzese in cui ho pranzato. Fornire, durante il servizio, lunghe descrizioni delle portate è anzi un’abitudine consolidata dell’alta ristorazione. Ne ha parlato anche il celebre critico gastronomico Valerio Visintin, che, in un articolo pubblicato sul Gambero Rosso lo scorso giugno, citava “l’esasperante spiegone dei piatti” tra i “vezzi anacronistici” e le “abitudini seriali” che fanno oggi del fine dining “un corollario di ritualità prevedibili e catalogate”.

 

Come dicevo, apprezzo enormemente l’alta ristorazione. E, in effetti, apprezzo pure i suoi riti prevedibili e catalogati, che trovo una coccola rassicurante, a patto che non siano innaturali forzature. D’altra parte, per me, come per la stragrande maggioranza degli avventori di ristoranti gourmet, cene e pranzi in questi locali non sono affatto la quotidianità. Sono, anzi, uno sfizio da concedersi di tanto in tanto, un’esperienza straordinaria. Le pagnotte calde, i brodi versati al tavolo sulle pietanze e i finger food attaccati alle ceramiche bianche (che intanto hanno annoiato Visintin) sono una gradevole coccola dai contorni inusuali. Proprio perché di una coccola si tratta, però, credo sarebbe anche bello avere piena consapevolezza di che cosa ci sia nel piatto senza dover necessariamente compiere uno sforzo mnemonico.

 

Mi spiego meglio. Gli amouse bouche, offerti a inizio pasto, nemmeno compaiono a menù: vengono direttamente enunciati dal cameriere al tavolo. Il cliente, ancora a stomaco vuoto, deve così ricordare il contenuto di diversi piattini, la cui degustazione ha pure spesso un ordine di consumazione consigliato. I singoli piatti, che siano inseriti in un percorso degustazione oppure ordinati alla carta, vengono elencati nei menù in maniera estremamente sintetica, talvolta perfino ermetica. Un paio di esempi dal menù che ho consumato al mio ultimo pranzo fuori? ‘La sicilitudine nel gambero di Sicilia’. Oppure, ‘Il risotto carnaroli puro di Groppello Cairoli e le sarde’. I nomi dei piatti sono certamente funzionali a stuzzicare la curiosità e l’appetito degli ospiti, le pietanze, però, sono spesso molto complesse e ricche di ingredienti e meritano di essere apprezzate appieno dall’ospite anche sotto questo punto di vista. Perché allora non fornire al cliente, magari assieme agli amouse bouche, anche una descrizione scritta del percorso degustazione scelto? Basta poco, talvolta, per far stare bene un ospite.

 

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