Valeria Piccini del Ristorante Caino di Montemerano (Gr) parla di cuoche e di “retaggi del passato”. Ma anche della sua Toscana e di cucina. E delle nuove leve, tra cui sembrano esserci alcuni giovani parecchio promettenti.

 

di Elisa Tonussi

 

Toscana Doc, da ben 43 anni, Valeria Piccini interpreta in cucina la sua “magica terra”. E da 23 il suo Ristorante Caino di Montemerano (Gr) è bistellato Michelin. Ruvida al primo impatto, severa, comunica con le sue parole tutta la passione per un lavoro che richiede amore e sensibilità, trasmessi, come nelle più tradizionali storie italiane, dalla suocera e dalle signore del suo paese nella Maremma. Oggi è lei stessa mentore di numerosi giovani chef, “che mi danno tanta energia”. Ed è promotrice del progetto SheF, da lei fondato “per dare voce a tutte le cuoche donna che hanno fatto e continuano a fare grande la cucina italiana”. Abbiamo parlato proprio di questo: delle professioniste della ristorazione e di retaggi del passato da superare. Ma anche della sua Toscana e di cucina. E delle nuove leve, tra cui sembrano esserci alcuni giovani – di ambo i sessi, sia chiaro! – parecchio promettenti.

 

Ci racconti la sua Toscana.

La Toscana per me rappresenta la matrice di tutto, l’origine di ogni cosa. La Toscana è l’incipit del mio processo creativo, è una terra meravigliosa con un potenziale immenso e ricco di tradizioni, ma su tutte quella culinaria. È una regione ricca di tutto quello che ci serve per fare il nostro lavoro: di arte, di sentimenti, di materia prima. È ricca di bellezza.

 

Cos’è dunque la cucina?

Cucinare per me significa trasmettere il mio pensiero a chi viene a tavola. È un atto di generosità. Perché il fine del mio lavoro è il godimento degli altri. Ed è naturalmente un grande impegno. Ma non mi pesa: lo faccio col cuore. Come diceva, la Toscana e la Maremma sono fulcro della sua cucina.

 

Come non tradire la tradizione nel rivisitare e riproporre in chiave gourmet ingredienti e piatti tipici?

Da sempre, la Toscana è nota come regione di carne, ma è ricca anche dal punto ittico. Anzi, si è rivelata una delle regioni in cui la fusione tra terra e mare è delle migliori. E ciò lo si comprende anche nel mio ristorante dove negli ultimi anni il pesce è divenuto parte integrante della nuova proposta di degustazione. Indubbiamente molte preparazioni hanno una matrice classica e tradizionale. Ovvio che l’approccio a questa materia prima è nettamente diverso, cerco leggerezza e profondità con gusti netti che riportano al passato, anche se in forma contemporanea, con l’utilizzo di nuove tecniche che portano a migliorare e a rispettare la materia prima adoperata. Pongo, poi, una cura maniacale anche nella forma in cui vengono preparati i piatti, aumentando in tal modo il piacere e il godimento dell’ospite.

 

Quale tra le sue creazioni più rappresenta il legame con la sua terra?

Possiamo nominare ‘Il cinghiale, la Maremma e il suo territorio’: sicuramente è uno dei piatti simbolo che meglio rappresenta il rapporto con la mia magica terra. La sua storia professionale si intreccia con quella familiare. Ce la racconti. Sicuramente il Ristorante Caino è da sempre stata una grande storia di famiglia. La mia inizia assieme a mia suocera e alle signore del paese: con loro ho condiviso dei momenti bellissimi, ho appreso tanto, una miriade di preparazioni tradizionali, le gestualità classiche e l’amore per questo mestiere. Che oggi, un po’ come loro, cerco di trasmettere ai miei ragazzi con passione.

 

Ci parli del suo marchio SheF.

SheF nasce dalla voglia di dar voce a tutte le cuoche donna che hanno fatto e continuano a fare grande la cucina italiana. Anche se il loro ruolo è ancora troppo poco valorizzato. Il nome deriva dall’unione delle parole ‘she’ (‘lei’, in inglese) e ‘chef’. Lo indosso tutti i giorni sulla mia giacca. Voglio sottolineare che la figura femminile, in cucina e non solo, è importante tanto quanto quella maschile. Quando ho ideato il marchio, avevo intenzione di organizzare eventi di beneficienza aventi le donne come protagoniste. Purtroppo, appena è nata l’idea, è arrivata la pandemia. E ancora non me la sento di organizzare nulla: non vedo la situazione così rosea.

 

È cambiata negli anni, secondo lei, l‘immagine della donna chef?

Ancora oggi purtroppo vige il tabù della chef donna. Sono ancora presenti, mio malgrado, in alcune cucine, i retaggi del passato. Fortunatamente, grazie ad alcune cuoche molto importanti di fama mondiale, questa discriminazione nei confronti delle donne e delle loro capacità, questo pensiero obsoleto stanno piano piano scomparendo. Una tra le ultime figure è la nuova tristellata Hélène Darroze, che ho avuto il piacere di conoscere tanti anni fa. Mi è rimasta impressa per la sua personalità. Il forte impatto della comunicazione e della nuova critica gastronomica ha permesso di scavalcare queste ideologie, dando voce alle nuove figure femminili che portano alto il ruolo della donna in cucine di gran livello.

 

Oltre ad Hélène Darroze, c’è una collega che stima particolarmente?

Sono tante le colleghe che stimo per bravura e sensibilità: Chiara Pavan, Cristina Bowerman, Antonia Klugmann, Nadia Santini, Nadia Moroni. Ma anche le più giovani, come Martina Caruso. Sono tutte quante molto brave e sensibili a questo lavoro e al tema della cucina etica.

 

Quali difficoltà incontrano ancora oggi le donne che vogliono intraprendere la sua professione?

Indubbiamente la difficoltà delle giovani cuoche sono molteplici, dallo sforzo fisico al rigore che vige nelle cucine professionali. Però sono molteplici i casi di successo che hanno portato le donne a essere parte indispensabile del panorama culinario moderno, vedi tutte le italiane.

 

Come superare i “retaggi del passato” di cui ha parlato?

Queste ideologie si possono e si devono superare, comprendendo che sono ormai legate alla vecchia scuola, creando un ambiente in cucina che sia paritario, in cui la donna si possa esprimere nella sua totalità, senza limiti e prevaricazioni che possono condizionarla. Parliamo di giovani, dalla sua cucina ne sono passati molti.

 

Qual è il suo giudizio sulle nuove generazioni?

I giovani devono innanzitutto capire se vogliono realmente intraprendere la strada della ristorazione. O se la loro scelta è legata alle tendenze del momento. Qualche volta i ragazzi hanno un’idea distorta del lavoro in cucina, per via dell’immagine trasmessa dai programmi televisivi. Il nostro è un lavoro di grande sacrificio. E non tutto si può imparare. Alcune cose, come l’organizzazione, la pulizia, la tecnica, si possono apprendere lavorando e studiando. Altre, invece, come l’amore e la passione sono innate. Perché la tecnica non basta. L’amore per il cibo, per la campagna, per la materia prima e la sensibilità sono il principio di questo lavoro. Poi si studia. E si continua a studiare. Anche a 60 anni, come sto facendo io.

 

E lei cosa impara dai giovani?

I ragazzi mi trasmettono tanta energia. Che mi dà la forza di continuare a sperimentare e andare avanti. E devo dire che qualcuno merita davvero!