A tu per tu con lo chef del Joia di Milano. Il suo approccio alla sostenibilità, la scelta delle materie prime e dei fornitori, la gestione del ristorante. E, soprattutto, il rapporto con il personale. 

 

di Elisa Tonussi

 

Il tema della sostenibilità è all’ordine del giorno, che sia ambientale, sociale o economica. Tema estremamente – e giustamente, aggiungo io – in voga, è sbandierato ormai dai più, ma troppo spesso è ridotto a mero slogan, senza corrispondere ad alcuna reale azione. Nella ristorazione, però, c’è chi ha fatto della sostenibilità la cifra della propria attività, declinandola e adattandola alla propria visione della cucina e dell’imprenditoria. Non possiamo ignorare la pervasività di questo tema nel quotidiano: ecco perché abbiamo scelto di dare spazio agli chef di alcuni dei ristoranti premiati con la stella verde Michelin, assegnata dalla Rossa a quelli più all’avanguardia nel campo della sostenibilità. Abbiamo coinvolto, per la prima parte del dossier – che leggerete sul numero della rivista in uscita la prossima settimana – Ernesto Iaccarino del Don Alfonso 1890 e Pietro Leemann del ristorante Joia. Nelle prossime righe, un assaggio di quello che ci ha raccontato il secondo, vegetariano della prima leva, che porta da sempre la natura nei suoi piatti, risultato di una costante ricerca di equilibrio tra tutti gli elementi dell’universo.

 

Quanto è importante la sostenibilità ambientale e sociale della sua attività?

La scelta vegetariana è sicuramente nella direzione della sostenibilità. Una persona che mangia vegetariano ha un impatto ambientale migliore per consumo delle risorse. Al Joia, inoltre, è tutto biologico, quindi c’è un profondo rispetto per l’agricoltura e l’agricoltore. A livello energetico, poi, siamo attenti ai consumi. Quindi, sì, la sostenibilità è importantissima per noi. Anzi, possiamo dire che l’ecologia è al cuore dell’attività del Joia.

 

In effetti la sua proposta è sempre più vegana…

Due delle nostre proposte contengono latticini, tutti gli altri piatti sono a base vegetale. Questo perché protagonista dei piatti è la natura. E la natura ha base fondamentalmente vegetale. Tra l’altro io non amo il termine ‘vegano’.

 

Perché?

È un termine che ha un po’ ghettizzato la scelta vegetale. Credo che crei delle ‘fazioni’, quando io, invece, sono per l’apertura. Quando viene apposta un’etichetta, si crea una separazione. Ci si rende conto, oltremodo in questo momento storico, di quanto tutto crei separazioni, mentre io sono per l’unione del futuro, dei pensieri. Ognuno ha il diritto di mangiare quanto reputa essere corretto per se stesso e nessuno ha diritto di entrare nella libertà di scelta di un altro individuo.

 

Come seleziona dunque i fornitori delle materie prime che utilizza?

La selezione è frutto di anni di lavoro. Quella con i produttori è prima di tutto una relazione. Con gli anni, per affinità di pensiero, mi sono avvicinato ad alcuni in particolare, condividendo uno stile di vita, uno stile agricolo. Alla fine, la qualità del prodotto è dunque associabile alla relazione: se un rapporto umano è positivo, reale, rispondente, migliore è il prodotto che ci viene fornito perché c’è trasparenza. Credo che oggi l’Alta cucina, con ‘a’ maiuscola, debba essere una cucina di relazione.

 

Sostenibilità è anche stagionalità, con quale frequenza cambia il menù del Joia?

Ogni due mesi circa. Perché ci sono dei frutti e delle verdure che sono disponibili più a lungo, come il carciofo, che si trova per circa cinque mesi; altri, come le ciliegie, vengono raccolti solo per un mese o un mese e mezzo. Noi dunque ci adattiamo agli ingredienti disponibili stagionalmente in un territorio. In questo modo ne rispettiamo anche la cultura. E la cucina è cultura.

 

Come declina il tema della sostenibilità nella gestione pratica del ristorante?

Concretamente, in cucina, dove si consuma più energia, abbiamo un sistema a induzione che gestisce la quantità di energia che consumiamo. Poi, banalmente, stiamo attenti a quanto teniamo accesi i forni, ad esempio. Conserviamo la verdura in casse di plastica lavabile che tornano al produttore, che ce le restituisce piene con i nuovi vegetali. Usiamo recipienti riutilizzabili… Nonostante questo, io sono ancora insoddisfatto perché la nostra produzione di imballaggi, purtroppo, è ancora elevata: riempiamo un sacco da 40 litri di rifiuti che non si possono riciclare.

 

Come si è rapportato dunque alla necessità di scegliere confezioni, che normalmente sono ‘usa e getta’, per il servizio di food delivery?

Abbiamo comprato delle scatole di alluminio, che diamo al cliente nell’ambito di un sistema di ‘vuoto a rendere’. Inoltre, l’alluminio è tra gli elementi più facilmente riciclabili. Altrimenti utilizziamo il vetro.

 

Quale iniziative adotta, invece, per garantire il benessere dei suoi collaboratori?

Il benessere è legato a differenti fattori. Uno è il posto di lavoro. Noi ad esempio lasciamo due giorni liberi alla settimana. Poi, avendo scelto di proporre solo degustazione, anziché una carta, il lavoro in cucina è meno stressante perché ogni reparto si occupa al massimo di due o tre piatti. Un altro aspetto da tenere in considerazione è quello aggregativo. Per me è fondamentale, ad esempio, sottolineare quando qualcosa è preparato in maniera corretta. Io, nel rispetto dei miei collaboratori, do a tutti del ‘lei’. Questo mi permette di avere un rispetto reciproco: do del ‘lei’ anche allo stagista alle prime armi. Inoltre, parolacce e battute sessiste sono bandite nella mia cucina perché ritengo che ne danneggino l’ambiente. Questo perché lo spirito con cui si cucina determina la qualità del piatto: un piatto può essere bellissimo, ma se prodotto con sofferenza, avrà un’energia negativa. Sono convinto che per cercare di migliorare il mondo intorno a noi dobbiamo migliorare noi stessi. Io compio questo lavoro su me stesso e cerco di essere da esempio a chi mi sta intorno.