Leandro Luppi, alla Vecchia Malcesine, ha la stella Michelin con le sue creazioni imperniate sul pesce del Garda veronese. Per lui, anche col Covid, niente delivery: l’esperienza si fa solo al ristorante.

 

di Tommaso Farina

 

Com’è la vita dei grandi ristoranti nei luoghi che vivono di turismo? Col lockdown e le misure di contenimento del Coronavirus può essere difficile. Il lago di Garda è una di queste zone, e non pensate che ci vadano solo i tedeschi. Perciò, è stato particolarmente interessante fare due chiacchiere con Leandro Luppi. Bolzanino, classe 1961, Leandro Luppi è un cuoco che è arrivato alla sua piena maturità con la Locanda Vecchia Malcesine, per l’appunto a Malcesine (Verona), sulla sponda veneta del Benaco, proprio sotto il monte Baldo. Da quasi 18 anni, a questo luogo del cuore la guida Michelin ha conferito una meritata stelletta. Oggi, la Vecchia Malcesine si è trovata a lavorare con ancora meno coperti di quelli, già pochi, che avrebbe in condizioni normali: ha tirato avanti così fintanto che ha potuto rimanere aperta. E Luppi, per scelta, non ha mai voluto attivare un servizio di asporto o di delivery dei suoi piatti. È una storia da raccontare.

 

Com’è cominciato tutto?

Nell’87 ho aperto il primo ristorante a Bolzano, la mia città, dopo le esperienze di gavetta. Ho sempre avuto locali miei, fino al 1991. Quell’anno, ebbi un’offerta: curare la cucina di un relais in Umbria. Dovevo organizzarmi, trasferirmi, vendere il mio ristorante. Riuscii a farlo in due mesi. Poi però ecco sopraggiungere un problema: il lavoro in Umbria non si concretizzò. Che fare? Optai per guardarmi intorno, una specie di anno sabbatico. Ero andato a vivere vicino a Riva del Garda. Lì frequentavo uno di quei ristoranti-osterie vecchia maniera, uno di quelli che avevano il bar, la rivendita tabacchi e anche qualche camera. Il proprietario mi disse: la mia mamma è morta, era lei che si occupava della cucina. Visto che ero (e sono) cuoco, mi aveva proposto di dargli una mano. Accettai. Lavorai lì per sei anni. Chiaramente, la mia intenzione era quella di ricrearmi un ristorante da solo, da zero. Ma intanto mi facevo conoscere nella zona del lago di Garda. E piano piano, con pazienza, l’occasione arrivò.

 

La Locanda Vecchia Malcesine?

Sì, la Locanda, quella che tengo ancora adesso. Era il 1997. C’era una trattoria, una vecchia casa del 1640, una delle ultime case del centro storico. Ristrutturata negli anni ‘80, era stata trasformata in una trattoria, una roba molto easy, gestita da due germanici. A fine ’97 sono entrato io. C’erano lavori e adeguamenti da fare. Li ho fatti, e nel marzo 1998 ho aperto al pubblico. Da allora, non ho fatto altro che lavorare continuamente sull’affinamento della mia cucina. Nel 2004, arrivò la stella Michelin, che non mi ha più lasciato.

 

E qual è la cucina che ha posto le basi di una stella che ha quasi diciott’anni?

Negli ultimi tre anni ho fatto un cambiamento abbastanza radicale, sia pure senza rinnegarmi. Faccio le stesse cose, ma ben distinte le une dalle altre. Prima proponevo il menù di terra, il menù di lago, quello di mare e quello vegetariano. Nello stesso menù servivo piatti classici, rivisitati alla mia maniera, insieme ad altri più creativi, oserei dire più spinti. Alla gente andava bene, ma mi dicevo che la cosa non funzionava come avrei voluto. Così, ho deciso di impostare due menù ben differenziati. Anzitutto, un menù classico, con i piatti che col tempo avevano acquistato una piccola fama. Per esempio? La carbonara di lago. È il mio piatto più richiesto, l’ho inventato vent’anni fa e non ho mai cessato di lavorarci. Fin dall’inizio, avevo deciso di puntare sul pesce di lago, per una forma di rispetto verso il territorio. Decisi di utilizzarlo mettendo in pratica le tecniche di cucina moderne. E questo, in tempi non sospetti. Oggi è diventato quasi di moda, il pesce di lago: non c’è ristorante, anche lontano dai laghi, che non proponga un salmerino. Forse ci ho visto lungo. In ogni caso, la carbonara la creo con una crema di uovo molto morbido, e con una dadolata di lavarello marinato e poi passato in padella con l’olio. L’effetto tattile e gustativo è vicinissimo a quello del guanciale della carbonara tradizionale. Come pasta, ero partito dagli spaghetti. Oggi faccio delle conchigliette bianche e nere, per pura suggestione dei colori. Ma faccio anche dei “classici” ancora più imprevedibili.

 

Per esempio?

La trota con crema liquida di cioccolato bianco e cren. L’ho ideata 15 anni fa. Può sembrare un’astruseria, ma assicuro che fa più impressione a leggerla che a mangiarla. Questo è il menù classico.

 

E l’altro?

C’è il menù “R-Evolution”: come dire, qualcosa che è rivoluzione e anche evoluzione. Una decina di piatti, secondo l’estro quotidiano. Non è un menù strutturato in antipasti, primi e secondi. L’unica struttura è rappresentata dall’emozione data dalle portate. Possono essere tutti primi, o tutti antipasti. Un percorso non lineare. Lo dico sempre: ci sono anche dei piatti che non vi piaceranno, ma vi daranno comunque un’emozione. Con questi due menù, è come avere due cucine diverse. E io non mi annoio. E soprattutto, non annoio i clienti a cui piace giocare. Anche coi vini.

 

E come si gioca?

Tutti sanno che ci sono abbinamenti armonici, perfetti, di cibo e vino. Ma quelli sbagliati, chi ve li spiega? Li conoscono, i clienti? Se io non glieli faccio toccare con mano, un cliente può anche non conoscerli. Così a volte, proprio perché si tratta di un gioco, provo a servire un vino in un abbinamento poco armonico.

 

E la cosa è apprezzata?

Si divertono come pazzi, e imparano ad apprezzare ancora di più gli abbinamenti invece centrati. Un risotto alla liquirizia con lo Chardonnay di Borgogna? Non ci sta proprio, è quasi una violenza. Invece, provando un bianco di quelli macerati, magari con percezioni di anice stellato, si coglie un abbinamento armonico. Diciamo che provo a fare un’educazione, anche se sempre divertente, ludica. E la clientela apprezza. Così come apprezza le nostre materie prime.

 

Quali sono?

Pesci di lago. Siamo alla mercè delle generosità del Garda. Quando un pescatore non può uscire per il brutto tempo, abbiamo meno pesce. In questi casi, ci riforniamo da allevatori, come Trota Oro, che sta a Preore, provincia di Trento, non distante da qui. Anche sulla carne, mi piace il prodotto locale, di qualità. Mi rivolgo alla Garronese Veneta: un piccolo sodalizio di allevatori delle montagne veronesi, che allevano la garonnese, detta anche garronese, e altre razze come la bionda d’Aquitania. Le macella la macelleria Sartori di Brenzone, e molti chef ci stanno puntando.

 

Con il Covid tutto questo ha avuto una battuta d’arresto…

Nel 2020, ho lavorato da giugno a set tembre, anche se a giugno molto poco, con le frontiere chiuse. Nel 2019 avevo clienti di 36 nazionalità diverse. Il lago è punto focale, un punto d’incrocio nel mondo. Nel 2018 ci sono stati 24 milioni di pernottamenti, il secondo polo turistico italiano dopo la provincia di Rimini. A Malcesine ci sono 110 alberghi e 70 ristoranti. L’anno scorso abbiamo lavorato tre mesi. Posso dire che la colpa è stata anche di certi comportamenti? Il giorno di San Valentino sembrava di essere a Ferrago sto: assembramenti, vere e proprie bolge in giro sul lago. Oggi io ho solo 22 coper ti. Ci sono invece colleghi che se ne sono bellamente sbattuti delle norme. La mia speranza è quella di riuscire ad aprire perlomeno tra il 20 aprile e il primo maggio.

 

Delivery niente?

No, non lo faccio. Non posso mandarti i miei piatti “senza di me”. Si perderebbe l’esperienza. Non avrei neanche numeri sufficienti per metterlo in piedi decentemente. Finirei in perdita, e ci manca pure questo.