Chef stellato di 35 anni, guida la cucina di Bianca, il nuovo relais internazionale che la famiglia Spreafico ha aperto sul laghetto di Annone (Lc). Le parole d’ordine sono stupire e divertire.
di Tommaso Farina
Là dove la buona borghesia brianzola celebrava gli anniversari di matrimonio, oggi c’è una bomboniera che attira turisti da Russia e Lussemburgo. E neanche sul Lario adorato da George Clooney: sulla sponda del lago d’Annone, provincia di Lecco. Col Covid non ci sono solo ristoranti che chiudono: abbiamo anche locali che aprono per creare qualcosa di nuovo e bello. Il posto di cui state leggendo si chiama Bianca, e il nome non è un caso. Per lunghissimi anni, in questa costruzione lunga e bassa del lido lacustre di Oggiono, c’è stata la Ca’ Bianca: un porto sicuro per matrimoni e prime comunioni al gusto di riso col pesce persico. Una tradizione inossidabile. Poi, arrivò Marco Spreafico, assieme a suo figlio Francesco: ambedue brianzoli, e imprenditori industriali di successo. È stata loro l’idea di trasformare questo piccolo angolo in una specie di bolla di bellezza e di tranquillità. Con un importante investimento, ecco che alla fine del 2019 decidono di mutare l’antica Ca’ Bianca in un albergo riposante e lussuoso. E senza trascurare il ristorante. Dopo un breve interregno che vide la presenza dell’ottimo chef bresciano Fabrizio Albini, ecco l’intuizione: a settembre 2020, poco prima del secondo lockdown, i due Spreafico chiamano Emanuele Petrosino, chef di Aprilia, classe 1986. E già una stella Michelin, ai Portici di Bologna. Bene: il lockdown sembrò frenare i sogni di gloria. Ora però Bianca ha potuto iniziare a lavorare a regime, da quasi due mesi. E’ lui stesso a parlarcene.
Com’è cominciato tutto?
Io vengo da Aprilia. Vengo da un mondo di campi, di frutta, di verdura. In famiglia avevamo una fattoria, e per hobby facevamo il pane nel forno, il sabato. Fin da bambino sono cresciuto in un ambiente in cui mangiare era un atto di condivisione umana. A 15 anni, influenzato dai cuochi che cominciavano ad andare in tv, sono entrato in scuola alberghiera, a Vico Equense. Poi, ho fatto esperienza in Francia, in un due stelle Michelin: la miglior scuola possibile. Poi, apprendistato in Italia: Piazza Duomo, Taverna Estia e Danì Maison, da Nino Di Costanzo, a Ischia. Ho cercato di fare come mi aveva suggerito la mia mamma: devi rubare il meglio delle altre persone. Poi sono stato sous chef di Agostino Iacobucci ai Portici di Bologna, dove poi sono ritornato come chef di cucina.
E ora qui…
Cercavo una nuova sfida. Non è che prima non ci fosse, ma era un contesto diverso. Non riuscivo a seguire tutto come volevo io, era un’impresa grande. Volevo qualcosa più a misura d’uomo, e che mi consentisse di seguire tutto di persona, dalla prima colazione in avanti. Il posto poi è divino, me ne sono innamorato subito, sono arrivato al tramonto e ne sono rimasto ‘fregato’, conquistato. Così, mi sono assicurato di poter portare un po’ tutta la squadra di cucina che avevo a Bologna, e anche Roberto e un altro ragazzo per la sala. Siamo in 13, cerchiamo di dare la massima attenzione a tutto, dentro e fuori la cucina.
Anche il bistrot?
Il bistrot ha un menù che non ha nulla da invidiare a quello del ristorante principale. Ci divertiamo da matti col nostro orto. L’azienda crede moltissimo a tutto il progetto, senza eccezioni. Speriamo ora di poter andare avanti, senza altri lockdown o chiusure a metterci i bastoni tra le ruote. I clienti si divertono parecchio qui da noi.
E si capisce: i piatti che abbiamo visto sono una coccola continua a tutti i cinque sensi, non solo al gusto…
Io penso anzitutto a creare una cucina buona, di qualità. Ma poi, non ignoro che spesso si mangia anche con gli occhi, dunque curo anche il colpo d’occhio, l’estetica del piatto. Il gusto è quello che arriva alla fine, se ci pensate: prima l’impatto è visivo e, da non sottovalutare, olfattivo.
E sono piatti che già a Bologna erano in carta?
Certo, alcuni sì, fanno parte del mio bagaglio. Io non faccio una cucina strettamente territoriale, legata a un territorio. Faccio una cucina italiana, quello sì. Con vari rimandi, ricordi e suggestioni. Il mio preferito è l’Uovo Fabergè, ci sono affezionato. È il primo che ho fatto uscire dalla mia cucina. Il mio scopo comunque è quello di non immiserire gli ingredienti. Certe tecniche culinarie le lascio ad altri. Per esempio, sono molto scettico sulla fermentazione, quella in voga nella cucina nordica. È una cosa bella, ma non ci appartiene. Non la considero un metodo risolutivo: e al nord serviva per conservare certi ingredienti che non potevano essere coltivati tutto l’anno a causa del clima. Io sto in Italia, preferisco sperimentare, ma senza abbandonare la nostra tradizione.
C’è qualcosa che le piace fare?
Posso dire cosa preferisco non fare in prima persona: la pasticceria. Posso concepire un dolce, dare degli input, delle idee. Ma il lavoro vero lo farà sempre il mio pasticcere, il pastry chef.
L’articolo completo sarà pubblicato sul prossimo numero di Luxury Food & Beverage Magazine in uscita il 22 luglio.