A Identità Milano 2024, che si è svolto dal 9 all’11 marzo, si è parlato di trasgressione e innovazione. Ma sembra che nessuno, tra le sale del Mico, dove si è svolta la manifestazione, abbia veramente scardinato le regole.

 

Di Elisa Tonussi

 

‘Non esiste innovazione senza disobbedienza: la rivoluzione oggi’. Era questo il tema, altisonante, come sempre, di Identità Milano, il congresso che da 19 anni a questa parte riunisce i più grandi nomi della ristorazione.  Di disobbedienza e rivoluzione, però, non è che ci fosse veramente l’aria tra i corridoi del Mico, dove tra il 9 e l’11 marzo hanno dato appuntamento i giornalisti Claudio Ceroni e Paolo Marchi, organizzatori della manifestazione. Anzi. Gli sponsor erano sempre gli stessi. La riflessione è scaduta troppo spesso nella più vuota retorica. Stonavano i tanti interventi promozionali tra una masterclass e l’altra. Sia chiaro: le lezioni degli chef sono state interessantissime e ricche di spunti. Quando gli stellati si mettono ai fornelli, raccontando i piatti in fase di preparazione, non ce n’è per nessuno. E l’innovazione non manca mai. E non è mancata nemmeno quest’anno. D’altra parte, chi deve innovare se non chef del calibro di Massimiliano Alajmo (che ha presentato delle fettuccine con polvere di guscio d’uovo) o Riccardo Camanini (che ha cucinato un risotto mantecandolo con maionese ottenuta con olio di stoccafisso e abbinandolo alla banana)?

 

Mi sono però domandata: innovare significa necessariamente disobbedire? A Identità Milano ho visto negli chef il desiderio di studiare, conoscere, assimilare e proporre una propria visione di un piatto o di un ingrediente. Camanini, ad esempio, ha proposto una reinterpretazione della minestra di cavoli struccati alla milanese di Bartolomeo Scappi, cuoco del 1500. È partito dal significato della parola ‘struccare’, cioè ‘comprimere’, ‘spremere’. E ha riproposto la ricetta introducendo alcuni peculiari ingredienti: le tinture madri, l’estratto secco e le lacrime di benzoino. Una vera innovazione. Disobbediente? Non saprei. L’atto del disobbedire presuppone l’esistenza di regole o istituzioni a cui contravvenire: temo non sia il caso della minestra di cavoli alla milanese di Bartolomeo Scappi.

 

Se disobbedire significa scardinare la tradizione, spesso osannata, per adeguarla ai gusti che mutano, allora ho trovato di gran lunga più disobbedienti rispetto a tanti piatti presentati a Identità Milano i pizzoccheri che ho mangiato domenica a pranzo. La loro peculiarità: erano vegani. Ebbene, sì. Li ho assaggiati in un locale di Monza, si chiama Turné: si tratta di un ristorante e bistrot di poche pretese, con un ampio menù di pizze, panini e primi e secondi piatti. Tra le varie proposte, numerose sono vegane o riproposte in chiave veg. Così, accanto ai tradizionalissimi pizzoccheri alla valtellinese, grondanti burro e formaggio, fa capolino una versione completamente vegetale. Mi ha incuriosita e l’ho assaggiata. Al posto di Bitto e Casera, un ‘formaggio’ a base di frutta secca autoprodotto. È inutile negarlo: mancava la tipica grassezza dei pizzoccheri tradizionali e pure la spinta di gusto dei formaggi, ma erano ugualmente cremosi e saporiti e la salvia dava l’aromaticità corretta. Era, in poche parole, un piatto ricco e goloso, diverso dai pizzoccheri tradizionali, ma che soddisfaceva il palato. Sicuramente, un vegano tout court sarebbe ben contento di trovare una simile alternativa ai pizzoccheri valtellinesi.

 

Non sono completamente a mio agio nel concetto di disobbedienza e rivoluzione; credo che le regole siano essenziali, anche se non devono essere obbedite in maniera acritica. Sono altrettanto convinta che il cambiamento, perfino la rivoluzione, possa avvenire in maniera silenziosa, perfino progressiva. Proprio come un piatto di pizzoccheri veg, con tanta naturalezza inserito in un menù ampio e vario, senza sbandierare uno spasmodico desiderio di rivoluzionare qualcosa.