Stellato trentenne, ha scelto la sua strada: i maestri danesi come traccia per elaborare una cucina pulita e concentrata, dove è il Lario a dominare. E il dessert di midollo e zafferano è un commosso omaggio al risotto. A tu per tu con lo chef del ristorante Materia di Cernobbio. 

 

di Tommaso Farina

 

Il lago di Como e la sua gastronomia non sono cose di ieri, ma di oggi. E anche di domani. La cucina di lago non è noiosa e prevedibile: ci sono cuochi che hanno saputo renderla cool, per usare un termine chiaro. Ossia bella, avvincente, affascinante. E moderna. Una visita al ristorante Materia, in quel di Cernobbio (Como), potrebbe lasciarvi sensazioni che non si scordano. E le ha lasciate anche agli ispettori della guida Michelin, che hanno dato una stella a questo locale piccolo, dall’apparenza dimessa, che ha il suo segreto nella bravura del servizio, ma soprattutto nell’incredibile ricercatezza di una cucina tutt’altro che scontata. Ci voleva, a Como, il talento dell’imponente e simpatico Davide Caranchini. Classe 1990, comasco di origini controllatissime, Caranchini da qualche tempo si è imposto come astro brillante nel panorama gastronomico del lago e della Lombardia tutta. Le sue molteplici esperienze internazionali, tra cui quella al Noma di Copenaghen – ora eletto miglior ristorante del mondo dal World’s 5 best – non gli hanno per nulla fatto dimenticare le sue radici. Che poi, sono quelle del suo lago. Ed ecco dunque Davide proporre una cucina in cui tecniche innovative, molto spinte sulla manipolazione (ma la parola è brutta, è un dispiacere usarla) di verdure e vegetali, si uniscono in solare matrimonio con le tradizioni lariane e lombarde, in un unicum assolutamente da conoscere. Ma venendo al pranzo, che c’è nel piatto? Ce lo spiega Davide, che racconta volentieri da dove è partito.

 

Allora Davide, galeotta fu la cucina danese?

Sì e no. È vero, la mia esperienza al Noma di René Redzepi è quella di cui si parla maggiormente, quando ci si riferisce a me. Ma è solo una delle tante. Sono partito con la scuola alberghiera qui, nella mia terra. Sono poi partito subito per fare esperienza, prima a Londra. Poi sono tornato a Como, dove ho conosciuto Ambra. Ambra mi ha poi seguito quando sono tornato a Londra, e poi sono sbarcato a Copenaghen. Non lavoravamo insieme: lei è venuta con me, ma faceva altro. Alla fine, ho fatto parte anche dello staff dell’Enoteca Pinchiorri, di Firenze.

 

E cosa ha imparato?

Direi tutto. Si parla sempre di Caranchini al Noma, ma in effetti al Noma, più ancora di chissà quale tecnica, ho imparato un atteggiamento di apertura mentale: il guardare alla cucina con uno sguardo nettamente diverso da quello che avevo avuto fino ad allora. La prima esperienza era stata a Londra, da Le Gavroche di Michel Roux: un bistellato Michelin che più classico non si può. Al Noma, altra storia. Ci ho messo un po’ a metabolizzare, ma poi mi sono reso conto che volevo fare qualcosa di simile anch’io.

 

E ciò si è tradotto in qualcosa di concreto?

Ho iniziato a usare la tecnica della fermentazione. E non è solo un giochetto nordico, malgrado quello che alcuni pensano: si usava anche da noi per conservare la verdura. Ma mi sono accorto che stavo diventando ‘il cuoco nordico a Como’. Le etichette non mi piacciono. Col nuovo corso post lockdown, ho cercato una strada diversa. Ho deciso di limitare l’uso della fermentazione a scopi strettamente legati al gusto complessivo delle pietanze. Si parla molto di avanguardia, ma cos’è l’avanguardia? Cose che oramai fanno tutti? È una moda, o almeno spesso diventa tale. Preferisco intraprendere altre strade. Ho concepito una cucina più pulita e concentrata rispetto a quanto fosse prima. Con altre novità: se prima non usavo mai pesce di mare, ora c’è anche quello. Non aveva senso non servirlo. Uno dei piatti più riusciti è l’insalata di mare.

 

Ma senza dimenticare il pesce di lago, vero?

L’amore per il pesce del Lario è viscerale, viene da dentro: è il gusto con cui sono cresciuto fin da bambino. E ora mi piace dargli una dignità culinaria. A Madrid Fusion ho presentato il mio antipasto di lago, per far notare ai gastronomi più insigni che il Lario non è solo George Clooney e ville di lusso.

 

Per esempio, nel suo antipasto serve il caviale di coregone…

Esattamente. Può non avere nulla da invidiare a quello di storione. Ho sempre odiato sentir parlare di rivisitazione, innovazione: preso tutto quello di buono nel lago, lo trasformo in maniera completamente nuova, gli dò una nuova dignità. Così, nelle mie uova di coregone, chi le assaggia resta colpito dall’abbinamento con la salsa di lievito. Faccio una considerazione: nella mia cucina, voglio molta più italianità, più riconoscibilità italiana, con la mia testa dietro tutto. L’avanguardia in cucina, e lo dico da italiano, dev’essere avanguardia di pensiero anzitutto. La modernità risiede nel pensiero. La tecnica viene dopo, al servizio di questo pensiero. A Madrid, in Spagna, patria delle avanguardie culinarie incentrate su un’abilità quasi stregonesca della tecnica, questo concetto deve aver spiazzato non poco.

 

Un concetto che sta dietro a uno dei suoi piatti più famosi, il dessert di midollo e zafferano. L’abbiamo provato, ed è quasi un concentrato di risotto servito per dolce…

Midollo e zafferano è un piatto che nasce da una riflessione sulla storia della cucina comasca. Tutti i ragazzi si sono fatti cucinare il risotto dalla mamma, a Como. Il risotto è milanese, ma a Como ha cittadinanza da tempi non sospetti. Volendo valorizzare il mio territorio, non poteva mancare un omaggio del genere. Volevo farlo nella maniera meno scontata. L’idea? Un dessert. Facciamo un dessert allo zafferano. Un risotto dolce allo zafferano era troppo banale. Togli il riso al risotto, e che ti rimane? Il midollo. Così, ecco che faccio un gelato di fiordilatte in cui la parte della panna è sostituita dal midollo. Tutto attorno, una bella spuma allo zafferano. Un dessert che non è esageratamente dolce, ma che cattura.