Il riconoscimento attribuito ieri dal Comitato internazionale è una notizia bellissima. Ma in concreto che significa? Ne parliamo con il presidente di Ambasciatori del Gusto, che chiede allo Stato di venire incontro ai ristoratori per far crescere davvero il Paese.
di Tommaso Farina
È fatta. Da ieri, la cucina italiana è stata inclusa nella Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco. Dietro la designazione di ‘Cucina italiana fra sostenibilità e diversità bio-culturale’, il nostro corpus culinario è diventato anche patrimonio Unesco, come ha deliberato il Comitato Internazionale riunitosi a Nuova Delhi. Il traguardo è importante: se già la cucina francese e quella nipponica avevano ottenuto riconoscimenti, è la prima volta che una tradizione culinaria viene premiata nella sua globalità, superando l’approccio adottato in passato, incentrato su singole pratiche o tecniche. Tra queste ultime peraltro l’Italia poteva vantare l’attribuzione della medaglia Unesco alla Dieta Mediterranea e all’Arte del pizzaiolo napoletano, senza contare i tributi alla viticoltura ad alberello e alla tradizione della ricerca del tartufo. Comprensibilmente giubilanti i toni della politica, a partire dal ministro del Masaf Francesco Lollobrigida, da sempre in prima linea nel sostenere la candidatura. Ma cosa pensano gli addetti ai lavori? Il gagliardetto Unesco porterà davvero qualcosa alla ristorazione italiana? L’abbiamo chiesto ad Alessandro Gilmozzi, trentino, una stella Michelin col ristorante El Molin di Cavalese (Trento), in val di Fiemme, paladino della cultura del territorio (il suo ristorante ha anche la stella verde) nonché presidente dell’Associazione italiana Ambasciatori del Gusto. L’abbiamo raggiunto mentre si sta occupando del progetto che gli Ambasciatori hanno concepito per le imminenti Olimpiadi: dieci cene selezionatissime, realizzate in sinergia con dieci chef aderenti all’associazione e 400 ragazzi di 17 istituti alberghieri del Trentino.
Che significa per noi il riconoscimento del patrimonio Unesco?
È una cosa molto bella, oserei dire naturale. La cucina è anche e soprattutto cultura, e non credo ci sia qualcuno che possa negare questa realtà: dunque, l’iscrizione della nostra cucina a patrimonio culturale immateriale non ha nulla di strano o stravagante. Il popolo italiano ha sempre avuto un rapporto particolare con la cucina: cucinare vuol dire entrare in contatto con le fasce della popolazione più disparate, a cominciare da chi lavora in agricoltura ed è direttamente responsabile della produzione del cibo che mangiamo. Mi sento solo di dire: chapeau! Del resto, anche nel mondo della pubblicità si può notare come le eccellenze del nostro made in Italy vengano promozionate facendole andare a braccetto coi nostri piatti e le nostre bontà. Basti vedere la campagna pubblicitaria di Barilla con la Formula Uno, che mette insieme due icone italiane che il mondo ci invidia: pasta e motori. La cucina permea ogni respiro del modo di essere italiano. Più cultura di così…
Un simile traguardo è dunque un approdo naturale e molto sentito, ma cosa vuol dire questo per la ristorazione?
Io e tanti altri chef da tutt’Italia abbiamo una passione innata, un senso di appartenenza al nostro territorio. Dunque accogliamo con favore, oggi, la decisione del comitato dell’Unesco. Ma domani? Che si farà? Si tratta di un’opportunità turistica irrinunciabile. Questo dev’essere solo il punto di partenza. Ora, ci vuole qualche aiuto dallo Stato. Ma non in senso assistenzialista: ci piacerebbe che lo Stato ci venisse incontro in qualche modo.
Per esempio?
Col marketing. Dovremmo essere aiutati con la promozione. Avete presente Hallstatt, in Austria? È una cittadina di 700 abitanti, che è diventata Patrimonio dell’umanità Unesco. Oggi, in quel villaggio arrivano frotte di turisti giapponesi. In Cina hanno realizzato perfino una replica della città. Si può dire che in pratica ormai abbiano una doppia vita, metà della quale scaturisce dal riconoscimento. Ecco: l’opportunità della cucina italiana è anche questa, con l’Unesco si può avere la spinta decisiva. L’ho visto anche con le mie Dolomiti: dopo che è passata l’Unesco, il turismo è esploso ancora di più. Ora ci vuole un’opera di promozione massiccia. Ma non solo: magari qualche aiuto nella politica fiscale? Qualche intervento per contrastare il costo del lavoro? Se davvero noi cuochi, pizzaioli, pasticceri possiamo contribuire a migliorare il turismo in Italia, perché non darci un po’ di aiuto?
E quelli che criticano la definizione troppo generica di ‘cucina italiana’?
Non mi pare un problema così radicale come dicono. Io sono un difensore delle tradizioni del mio Trentino, ma non mi ritengo affatto sminuito. Parlare di ‘cucina italiana’ non mi pare limitativo delle tradizioni regionali come qualcuno asserisce: la definizione onnicomprensiva tiene conto implicitamente di queste diversità, o almeno così credo. La cultura è un patrimonio di tutti. Io cerco di fare un’avanguardia che rispecchi le tradizioni, e lo faccio studiando, ricuperando ricette e scritti anche antichi, ma non la ritengo una cosa di mia proprietà: il recupero culturale appartiene a tutti.
