Sono i luoghi dove la squadra e l’allenatore contano quanto e più del fantasista in cucina. E possono offrire le stesse soddisfazioni delle tavole consacrate al talento del singolo grande cuoco.
di Tommaso Farina
A volte capita di scorgere o di imbattersi in qualche riflessione, e di avere una specie d’illuminazione, che ti fa dire: “Ma questo lo penso anch’io! Ce l’avevo sulla punta della lingua!”. Ebbene: questo mi è appena successo, leggendo un bel pezzo dell’amico Luca Iaccarino sul dorso torinese del Corriere della Sera. “Rivoglio i ristoranti dei patron, quelli cui chiedere: ‘Cosa c’è di buono oggi?’ e che al centro mettono il cliente”: se in certi casi i titoli degli articoli sono immaginifici e fuorvianti, questo è davvero riassuntivo del suo contenuto.
E che dice Iaccarino? In pratica, fa notare come in molti ristoranti del passato il padrone, il mattatore, colui che dava l’impronta all’impresa stava in sala faccia a faccia col cliente, e delegasse il ruolo di cuoco a qualcun altro. Più in generale, chi veniva a mangiare in un certo posto, non lo faceva per via dello chef di grido, ma per un po’ tutto l’insieme del ristorante stesso. E per l’impronta complessiva data dal sentimento della gestione, magari senza neanche che il nome del cuciniere si sapesse. Iaccarino, per farsi meglio capire, cita uno storico indirizzo della capitale sabauda: “A Torino l’esempio più fulgido è il Gatto Nero della famiglia Vannelli, di cui tutti i clienti conoscono il titolare-maître-sommelier Andrea — e prima di lui il padre Gilberto, e prima ancora il nonno Settimo —, e pochi sanno che in cucina, dal lontano 1991, c’è il bravo Azaiez Khorchef”. Al Gatto Nero, lo so perché lo conosco, si va per stare bene, per gustare una cucina senza lustrini particolari (insalata tiepida di mare, pappardelle al ragù d’anatra e Barbaresco…), il cui piatto più iconico (perdonatemi la parola) sono gli spaghetti alla Peppino Fiorelli, ideati nel 1957: pasta, trito di carciofini e capperi, poco pomodoro. Un desco, insomma, ove ci si siede per stare beati e basta, senza tante cerimonie o genuflessioni ai guru della cucina, e (pensate un po’) mangiando bene comunque.
Comunque, di ristoranti di questo tipo in Italia ce ne sono ancora tanti, e di tutte le razze. Se magari la maggioranza dei superstiti fa parte della ‘classe media’ della ristorazione, non mancano esempi tra i grandissimi. Da Vittorio, a Brusaporto (Bergamo), tre stelle Michelin, malgrado la collocazione in un contesto lussuosissimo, è un posto che, più che a un singolo chef solista, fa pensare allo sforzo corale di un’intera famiglia: e così è. Stesso discorso, mille chilometri più a Sud, per il Don Alfonso 1890 di Sant’Agata ai Due Golfi: i signori Iaccarino (ah: Luca non è parente loro…) danno l’impronta a tutto, e chi cucina segue lo stesso partito di chi fa sedere il cliente. Non parliamo poi della vecchia Ambasciata di Quistello (Mantova), quella precedente il ritiro dello storico patron Romano Tamani, ormai ottantenne: lui faceva la spola tra sala e cucina e, come auspicato da Luca Iaccarino, era in grado di dare consigli acuti su cosa ordinare ai suoi clienti, che tornavano volentieri e si erano coalizzati in una sorta di club di amici.
Gli chef-star, quando sono capaci, da un punto di vista culinario sono anch’essi un’esperienza irrinunciabile. Però, è inutile negarlo: molti, quando vanno in un locale indissolubilmente legato al suo cuciniere, entrano in soggezione, tra prenotazioni obbligatorie online, percorsi di degustazioni che vincolano l’intero tavolo, lacci e lacciuoli di ogni genere. “Per fare un’esperienza, si seguono le regole della casa”, ti dice il fan dello chef, talvolta sincero ed entusiasta, ma in certi altri casi solerte baciapile, e specialista nel collezionare le figurine degli stellati Michelin. Io le regole della casa le seguo, ma, come Luca Iaccarino, amo ancora di più essere l’oggetto delle attenzioni in quanto cliente. Ovvero in qualità di persona che ha scelto di andare proprio lì e non altrove.
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