Ama di più stare a tavola che cucinare. Ma, da maître-ristoratore, è stellato da quasi dieci anni col suo locale di Roma. Il suo sogno? Che la Michelin, con le valutazioni, valorizzi anche il servizio.

 

di Tommaso Farina

 

Il ristorante, in Italia, ormai è sempre il suo chef. Ci avete fatto caso? Non si dice “Vado a mangiare all’Osteria Francescana di Modena”: tutti dicono “Vado da Bottura”. Non si va a Villa Crespi, si va “da Cannavacciuolo”. Poi ci sono quelli come Carlo Cracco, che semplificano le cose alla radice, e danno al ristorante il proprio cognome, direttamente. Eppure non è stato sempre così. In Francia, la grande ristorazione è sempre stata un lavoro di squadra: tutti, dal cameriere al capopartita, concorrono nel far girare i meccanismi del locale con una facilità da orologio. Lo chef magari si prende le copertine (e in Francia i cuochi sono veri divi), ma nessun suo collaboratore è figlio di un Dio minore. C’è chi anche in Italia desidererebbe il ritorno a questo modello. Alessandro Pipero, laziale dei Castelli Romani, classe 1974, 47 anni il prossimo giugno, è uno di loro. E il perché è presto detto: al cucinare, lui ha sempre preferito il mangiare. Lui non è ai fornelli, eppure la stella Michelin l ’ha avuta lo stesso, prima col suo Pipero al Rex, e ora con Pipero Roma, ambedue nella Capitale. È lui il portabandiera della rivincita del ruolo più sottovalutato, inosservato e bistrattato della grande ristorazione: quello del maître. E nella sua parte, Pipero si cala con professionalità, eleganza ma anche senza ingessatura, senza lasciar perdere la sua genuina estrazione romana. E senza che la chiarezza della sua visione sia offuscata.

 

Allora Pipero, che ha fatto negli ultimi anni?

Principalmente, ho mangiato. Più chiaro di così… No, a parte gli scherzi ho sempre fatto il ristoratore. Solo che io ho fatto la carriera del cameriere, diventando poi proprietario e imprenditore di posti apprezzati per tutto ciò che offrono. Per la cucina e per il servizio.

 

E questa vocazione, com’è cominciata?

Da ragazzino non amavo studiare. In compenso, mi piaceva moltissimo mangiare. E qual è la scuola dove, per curriculum, devi mangiare due ore al giorno?

 

L’alberghiera?

Ecco, appunto. Sono andato all’alberghiera. Ma anche lì, preferivo mangiare, non cucinare. Anziché sul percorso di studi di cucina, ho preferito specializzarmi su quello di sala. Dopo il diploma, mi sono messo a lavorare, affinando sempre più le mie competenze. Mentre ero all’Hotel St. Regis di Roma, Antonello Colonna mi chiamò nel suo ristorante di Labico. Restai lì per sei anni, a fare il sommelier in uno dei ristoranti migliori d’Italia.

 

E poi?

Poi volli fare da me. Prima aprii un ristorante ad Albano Laziale, vicino casa. Era il 2007. Poi, mi spostai a Roma, all’Hotel Rex, vicino alla stazione Termini. Ad Albano il ristorante si chiamava Pipero, a Roma divenne Pipero a l Rex. Con me venne Luciano Monosilio, chef amico mio da molto tempo, anche lui delle mie parti. Nel 2012 arrivò la stella della Michelin. La storia recente invece è di quattro anni fa: mi sono trasferito in corso Vittorio Emanuele, in pieno centro, col mio nuovo ristorante. Si sono avvicendati a ltri chef, ma questo non ha disorientato nessun cliente.

 

Doveva?

Beh, in certi casi succede. Molti identificano il ristorante con lo chef. Per me al ristorante si va per sta re bene. Posso essere provocatorio? Forse la cucina è addirittura l ’ultima cosa che uno guarda. Un errore in cucina si perdona, ma una scorrettezza in sala o nell’accoglienza non ti fa tornare più a mangiare da qualche parte. Eppure, il mondo del la ristorazione ruota attorno agli chef. Se non l’avete notato, ben pochi camerieri aprono il loro ristorante: per loro, in gran parte, non c’ è ritorno. A me è andata bene, ma non è così per tutti. Pensateci: un Bottura o un Cracco possono permettersi di investire nella sala, perché in cuci na ci sono loro a garantire. Io ho dovuto investire nella cucina, tutto l’opposto. E le guide gastronomiche premia no solo la cuci na, anche se molti credono il contrario.

 

Per esempio, che succede al cambio di un cuoco?

Se Cracco o un altro chef, magari tristellato, cambia il maître o il sommelier, nessuno lo sa. Se io invece cambio il cuoco, devo farlo sapere alla Michelin e alle altre guide, per comunicare che lo chef precedente è andato da un’altra parte. A me tutto sommato è andata bene: ho cambiato cinque chef, la stella ce l’ho ancora. Ma il punto è proprio questo: gira tutto intorno alla cucina, quando invece anche la sala concorre alla felicità del cliente, e in misura certo non inferiore.

 

Ma che si potrebbe fare?

Le guide, tanto per cominciare, potrebbero valutare di più il servizio. Farebbe da stimolo, oltretutto, ai giovani che vorrebbero fare questo mestiere ma sono frenati da questo sistema, da questa situazione. Fare il cameriere o il maître non ‘tira’. I ragazzi vogliono diventare Cannavacciuolo, non Pipero, né Giuseppe Palmieri che sovrintende alla sala della Francescana, e nemmeno Marco Reitano della Pergola, qui a Roma. Se ci fosse più attenzione al servizio, anche questo lavoro avrebbe più appeal, e si garantirebbe motivazione e voglia di primeggiare anche tra i giovani che imparano.

 

Il suo chef, oggi, chi è?

Ciro Scamardella, da Bacoli, Campania. Gli consento di fare una cucina mediterranea curata e piena d’intuizioni. Per esempio, la cosiddetta ‘genovese’, che è un umido di carne e cipolle, tipico campano. Lui la fa con il polpo, e la usa per farcire i ravioli.

 

E la vostra mitica carbonara?

Ah, quella non la tocca nessuno, guai. È la nostra icona fin dal primo giorno. Nessun piatto si lega agli uomini come l’uovo si lega a pepe e guanciale. Lo dico sempre, e l’ho messo anche come status su Whatsapp: la carbonara non viene sempre bene, ma viene sempre bona.

 

Col Covid però vi siete un po’ fermati…

Il Covid ci ha resi diversi. Grande è la crisi economica che ha provocato, e che nessuno può negare. Ma si parla meno di un’altra crisi che è arrivata col Coronavirus: quella umana, quella degli animi. Vi siete accorti? Si parla solo di Covid, di salute. “Come stai?” non è più un semplice intercalare, ma un vero e proprio argomento di conversazione. Si parla solo di chiudere e riaprire. La somma di queste due crisi, economica e psicologica, la pagheremo molto cara.

 

Come vi siete organizzati?

In questo preciso momento, non facciamo delivery. La nostra politica è quella di fare un sacrif icio, rinunciare a incassare per poter risparmiare. A Pasqua comunque qualcosa abbiamo fatto, per esempio il Carbonara Kit, per farsi la carbonara da soli. Ma la verità è una: più un ristorante punta alla qualità, meno può stare al passo con i compromessi e i mezzi che si devono adottare per colpa di una cosa come il Covid. A certi livelli, fare deliver y è più diff icile senza deludere il cliente che ha una certa aspettativa. Per il futuro, non ho idea di cosa succederà. Facevo i pronostici a Natale. A settembre ci dicevano che avremmo riaperto a Natale, a febbraio si garantiva che la riapertura ci sarebbe stata a Pasqua. Ora siamo a primavera inoltrata, ancora così. Ma di che parliamo? E gli aff itti dei locali? Tutto è lasciato al buon cuore dei proprietari dei muri dove lavorano i ristoranti. Qualcuno li ha abbassati, ma non era obbligato. E difatti, moltissimi non l ’ hanno fatto, inguaiando i ristoratori che si trovano a pagare gli affitti con incassi zero o quasi, e col personale da mandare in cassa integrazione. C’è da augurarsi che tutto questo finisca.