La situazione della ristorazione italiana, tra cuochi e camerieri mortificati e la carenza di professionisti. E le nuove tendenze, dalla pandemia alla ripartenza. Parla Aldo Cursano, vicepresidente di Fipe Confcommercio. Che lancia un messaggio a tutti gli operatori del settore.

 

di Elisa Tonussi

 

“È a rischio un patrimonio gastronomico e identitario che rappresenta uno stile di vita tutto italiano”. A lanciare l’allarme è Aldo Cursano, vicepresidente di Fipe Confcommercio. La ristorazione italiana, infatti, ha già visto la chiusura di almeno 22mila attività. E ha perso 243mila professionisti, che hanno abbandonato il settore, mortificati dall’assenza di prospettive. Cursano analizza l’andamento del comparto, flagellato dalla pandemia, tra nuove tendenze e criticità. Il suo invito a tutti gli operatori del settore: condividere responsabilità e valori per fortificarli e uscire quanto prima dalla crisi.

 

Qual è la situazione del settore della ristorazione nella prima parte del 2021?

Bisogna innanzitutto prendere atto che la ripartenza dal 1° giugno non ha toccato tutte le attività. Quelle nelle zone balneari, di montagna o in campagna ne hanno sicuramente tratto giovamento, vista la voglia ‘di libertà’ delle persone. A testimonianza di questo una recente analisi del nostro centro studi, in base alla quale due imprese su tre danno un giudizio positivo sulla ripartenza. Eppure c’è ancora una parte per cui le cose non vanno bene. E’ il caso delle attività nelle città d’arte che, vivendo di turismo internazionale, stanno ancora soffrendo tanto. Il Covid ha reso fragilissimo il nostro settore. A esclusione dei grandi gruppi e delle catene, la stragrande maggioranza delle attività vive per cassa e, dopo due o tre mesi dallo scoppio della pandemia, i più fragili avevano lasciato il campo. Al 31 dicembre circa 22mila attività avevano chiuso i battenti. Dopo un anno e mezzo, il settore ha una tale esposizione debitoria che è molto complicato poter recuperare. Si stanno salvando le attività stagionali estive che, come l’anno scorso, stanno lavorando.

 

Con la riapertura è emerso un altro problema per il settore: la mancanza di cuochi e camerieri. Quali sono le motivazioni?

Abbiamo perso 243mila professionisti che hanno abbandonato il settore: molti si sono licenziati perché non hanno più intravisto una possibilità di lavorare, avendo compreso che quello della ristorazione era il primo a chiudere e l’ultimo a riaprire. Il problema è che ora mancano professionisti con specifiche competenze: chef e maître, figure professionali che non si possono improvvisare. Per questo alcuni colleghi hanno ridotto il numero di coperti o hanno preferito chiudere un paio di giorni alla settimana. Poi c’è il tema del costo del lavoro.

 

Vale a dire?

Il costo del lavoro in Italia è tra i più alti al mondo. Lo stipendio netto, invece, è tra i più bassi. Da imprenditore e da rappresentate, da sempre, chiedo di alleggerire i costi del lavoro per aumentare lo stipendio netto. La sfida per rendere il nostro lavoro più appetibile sta anche in questo: abbatterne i costi e renderlo più remunerativo. Occorre però avere più garanzie perché, dopo un anno e mezzo tra aperture e chiusure, le persone – operatori e clienti – non hanno più fiducia nel settore.

 

Qual è dunque il sentiment degli operatori del settore oggi?

Siamo mortificati. Ci siamo sentiti il capro espiatorio della gestione pandemica. E avvertiamo i segnali legati alla variante Delta. La paura ci tiene in tensione. È chiaro che saremo i primi a chiudere, come tutti i luoghi della socialità. C’è la percezione che un intero modello produttivo e distributivo, che da sempre caratterizza il Paese, rischi di implodere: gli investitori guardano con diffidenza al nostro comparto. È a rischio un patrimonio gastronomico e identitario che rappresenta uno stile di vita tutto italiano e che è uno dei motivi per cui i turisti vengono in Italia. Perdere i luoghi, i locali, i marchi che hanno fatto l’identità italiana significherebbe affidarsi alle catene e ai fast food. Diventeremmo così un Paese senz’anima.

 

Il settore in Italia è fatto di imprese familiari, giusto?

Esatto, il settore della ristorazione nel nostro Paese si fonda sul lavoro di piccole e piccolissime imprese, spesso a gestione familiare, che non stanno reggendo il peso della pandemia. E per fortuna c’è ancora la copertura della cassa integrazione che ancora non ha mostrato i veri effetti della crisi. Quando finiranno le minime coperture bancarie e i piccoli aiuti concessi vedremo realmente gli effetti sull’occupazione e sulla tenuta complessiva del settore e dell’economia. Ci dica di più. Sta venendo meno un modello di vita, tutto italiano, basato sulla socialità, che coinvolge la ristorazione, la moda, lo svago, creando degli effetti disastrosi. Le attività che vivono sulla base del fatturato di 12 mesi soffrono le conseguenze legate alla disoccupazione, alla minor disponibilità economica, alla paura. Ciò avrà effetti sui servizi offerti, sui menù, sulla gestione dei costi di impresa.

 

In un recente webinar durante il Vinitaly, Luciano Sbraga ha riportato alcuni dati secondo cui “poco più della metà dei gestori ritiene che il proprio lavoro sia ormai cambiato per sempre”. Quali i principali cambiamenti?

Stanno cambiando gli stili di vita. Salute e sicurezza stanno diventando prerequisiti nella scelta di un locale. Quindi anche la percezione di questi aspetti porta a modificare in maniera profonda il comportamento delle persone. Ecco perché stanno nascendo molte attività incentrate sul delivery e l’asporto: questi servizi rispondono alla necessità di sicurezza. Per questo motivo è importante creare un’identità legata anche a questi servizi, su cui occorre investire. C’è meno predisposizione, però, all’investimento.

 

Secondo uno studio di Deloitte (Osservatorio Deloitte Global State of Consumer Tracker) a livello globale si sedimenteranno alcune abitudini consolidate durante la pandemia, come mangiare maggiormente a casa e meno al ristorante. Trova un riscontro nella realtà attuale?

Assolutamente sì. Se non vogliamo fallire, e se il cliente non vuole venire da noi, dobbiamo far arrivare il nostro prodotto a casa creando le condizioni affinché l’esperienza possa comunque essere vissuta. Anche se viene meno una parte importante dell’aspetto emozionale. La clientela ha ormai acquisito l’abitudine di sfruttare il servizio, per cui diminuiranno sicuramente le persone nei ristoranti. Per far quadrare i conti servizi come il delivery e l’asporto saranno necessari.

 

Pensa che anche nel lungo periodo rimarrà questa tendenza?

Sono convinto che ormai il take away e il delivery saranno componenti di servizio di tutti i locali che resteranno sul mercato. Dobbiamo metterci al servizio delle persone. Dunque, se i clienti vogliono l’esperienza a casa e il ristoratore non la soddisfa, si rivolgeranno altrove e verrà meno il rapporto di fiducia. Chiaramente questo implica una diversa organizzazione aziendale e diversi contratti di lavoro. Non dovremo più rivolgerci a degli intermediari per il servizio di consegna, anzi, dovremo affrontarlo noi stessi. La pandemia ha abituato le persone a modalità diverse, che i clienti continuano a preferire, nonostante la voglia di socialità. Banalmente, anche se è nuovamente possibile mangiare all’interno dei locali, la stragrande maggioranza lavora esclusivamente all’esterno. È sempre una questione di sicurezza percepita.

 

Quali criticità, nell’ambito del settore della ristorazione, ha messo in evidenza la pandemia?

Il tema della contaminazione è molto serio. Il nostro lavoro si basa sul rapporto con il cliente e richiede enormemente l’uso delle mani per servire, apparecchiare e sparecchiare, attività che con il Covid richiedono una nuova consapevolezza, visti i rischi aumentati. Siamo tutti formati su igiene, sicurezza, processi, controllo alimentare, catena del freddo. Ma eravamo estranei agli aspetti connessi ai rischi pandemici. Il Covid dunque ci ha impegnati a rivedere comportamenti e processi, che erano insiti nel nostro modo di lavorare e accogliere gli ospiti.

 

Qual è il ruolo della Fipe nella ripartenza?

Stiamo accompagnando la categoria in questo riposizionamento. E stiamo anche iniziando ad alzare il tiro con le istituzioni. La pandemia ha evidenziato l’importanza di alcuni aspetti, come igiene e sicurezza, e ha mostrato che cosa vogliono dire professionalità e competenza. L’attuale liberalizzazione del mercato, che consente a chiunque di accedere al settore senza alcuna competenza specifica, richiede un intervento di programmazione e gestione. I luoghi, i gestori, il personale devono possedere le nozioni fondamentali a garantire la salute pubblica. Questo settore deve essere governato nell’interesse dei valori e dell’identità di tutti, salvaguardando le figure professionali che ci operano e aiutando i sindaci a gestire i territori con strumenti di governo che al momento non possiedono.

 

Vuole lanciare un messaggio agli operatori del settore?

È il momento di condividere le responsabilità. Il nostro Paese ha bisogno di salvaguardare la sua identità, il legame con il territorio, i mestieri. Ciò può avvenire con la condivisione di responsabilità e valori, da cui ripartire per fortificarli e uscire quanto prima e migliori da questa crisi.