Il conflitto fra ristoratori e aspiranti lavoratori sta giungendo al suo culmine. Gli uni additati come sfruttatori, gli altri come fannulloni. E’ il caso di fermarsi a riflettere. 

 

di Tommaso Farina

 

Russia contro Ucraina, Putin contro Zelens’kyj: il 2022 è arrivato quasi all’estate all’insegna della guerra. E la vera notizia, è che una sola guerra ad alcuni non basta: c’è chi ne vuole almeno due. Quello tra datori di lavoro in cerca di manodopera e aspiranti lavoratori della ristorazione è un conflitto che sta giungendo al suo culmine. Non fa vittime, è vero: però crea disagio sociale, risentimenti più o meno sordi, situazioni psicologiche degradate e degradanti. E il punto fermo, per chi alimenta la marea nera di questi litigi, sembra essere il conflitto stesso. Grazie a certi giornaloni, infatti, cosa si capisce? Sembra che gli imprenditori siano solo dei beceri, degli sfruttatori, degli schiavisti. Il torto sta solo dalla loro parte? Niente affatto: gli stessi giornali si affrettano anche a liquidare le perplessità, chiamiamole così, di chi non accetta certe condizioni. Così, gli aspiranti cuochi e camerieri diventano, di volta in volta, fannulloni, bamboccioni, figli di papà, ‘choosy’ (per rispolverare il lessico di un ministro che una decina di anni fa scoppiava a piangere in televisione), Arsenio Lupin del reddito di cittadinanza. Ecco, su quest’ultimo punto conviene riflettere: di truffe sul reddito di cittadinanza se ne sono scoperte a iosa, sono finiti anche sui giornali i magheggi di certi furbetti che hanno provato a lavorare in nero fino all’ultimo, intascando in sovrappiù anche l’obolo di Stato. Ecco, a causa dei furbastri, i datori di lavoro che non trovano personale dicono: vogliono tutti restare a casa a prendere il reddito di cittadinanza. L’alibi è servito. O almeno, così racconta la stampa. Un mondo in cui tutti abbiano torto e nessuno ragione fa notizia. Sembrano avere tutti torto per davvero: i ristoratori sarebbero cattivi aguzzini ed evasori fiscali, i disoccupati oziosi nullafacenti e, pure loro, frodatori del fisco. Vi ricordate di Alessandro Borghese? “Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con soli vitto e alloggio riconosciuti”: così disse. Io Borghese l’ho incontrato varie volte: è una delle persone più simpatiche e autentiche del mondo della cucina. Apparentemente, vuole essere civile e aperto con tutti. Si può non essere d’accordo sui concetti: essere pagati non può essere un optional, anche perché non tutti hanno vitto e alloggio garantito dal datore, e mangiare, anche se poco fine, è tristemente necessario per chiunque. Ma i toni di Borghese erano quelli del paradosso, non della guerra santa. Invece, altra storia quando il dibattito si è riversato sui social. Sono cominciate le dichiarazioni di ristoratori inviperiti, con reazioni che, ben più di Borghese, avrebbero dovuto far riflettere perché davvero arroganti e fuori dal mondo. A replicare, proclami da Masaniello o da comizio sindacale da parte del ‘popolo’ dei lavoratori, costretti a turni troppo duri. Il tutto, in un florilegio di insulti. Ma come ci stiamo riducendo? Possiamo fermarci un attimo, e ragionare? E provare a risolvere tutto parlandone con calma, fuori dalla guerra tra poveri?