L’Osservatorio Ristorazione pubblica un bollettino tragico, con quasi 30mila locali che scompaiono. Si dice che non investire in comunicazione e social sia deleterio: ma non è che talvolta rischia di diventare un investimento sbagliato?

 

di Tommaso Farina

 

Il 2023 era davvero l’anno della riscossa per la ristorazione? Sembra proprio di no, a giudicare dalle ultime notizie trapelate dalle rilevazioni condotte dalle associazioni di categoria. Il rapporto dell’Osservatorio Ristorazione, quel bel libretto che Ristoratore Top pubblica ogni anno, a tutta prima sembra quasi un bollettino di guerra, più che di cucine. Sono oltre 28mila le imprese della ristorazione che hanno chiuso i battenti nel 2023: il dato peggiore degli ultimi dieci anni. Nemmeno nei tempi terribili della pandemia di Covid-19 si era vista un’ecatombe così: facendo un rapido calcolo, si tratta di 2.334 attività chiuse al mese. Certo, nel 2023, di fronte a simile serrata, ci sono state oltre 10mila nuove aperture. Ma quando le chiusure sono quasi il triplo, c’è poco da stare allegri: in Italia ci sono 17.693 ristoranti in meno. Numeri da brivido. La cosa assume coloriture surreali, se si pensa che invece le spese alimentari di chi mangia fuori sono invece aumentate, per un totale di 89,6 miliardi di euro. Ma un dato simile è senza dubbio drogato dagli aumenti generali di un po’ tutti i prezzi: dagli ingredienti alle materie prime secche, dall’energia al costo del beverage, che risente particolarmente della congiuntura creatasi negli ultimi tre anni.

 

I luoghi ove l’ecatombe di ristoranti si è fatta maggiormente sentire sono le città turistiche, ossia quelle che solitamente vedono anche un proliferare di nuove aperture. Nei fatti, si tratta di piazze fin troppo dinamiche, dove è facile aprire ma tirare avanti in tranquillità lo è molto meno. A Firenze, in particolare, il saldo negativo delle imprese di ristorazione tocca il -5,3%. Subito dopo viene Roma (-3,4%) e infine Milano, che tutto sommato contiene i danni col suo -1,69%.

 

Secondo alcuni, chi non si è evoluto e chi è rimasto ancorato a un vecchio modello di ristorazione è stato costretto a chiudere. Bene: può darsi. Ma anche in questo caso, è difficile generalizzare. Lo diciamo sempre: la ristorazione è una delle attività umane il cui percorso vitale è più difficilmente spiegabile. Ci sono posti concepiti con l’ausilio di consulenze strapagate all’ultimo grido, martellamento di social network e sbandierate innovazioni che abbassano mestamente la serranda. Viceversa, sussistono locali che non cambiano menù da cinquant’anni, che magari non hanno nemmeno il sito web e ignorano completamente il significato della parola ‘influencer’, che invece prosperano e sono ricchissimi di clientela, aumentando i fatturati ogni anno. Siamo alle solite: è dura trovare un trend o una tendenza in questo settore, le schegge impazzite che mettono in dubbio le teorie sono talmente tante da non poter essere derubricate a semplici eccezioni.

 

Secondo l’Osservatorio, tende a perdere terreno chi non investe in comunicazione e presenza sui social network. Ok, ma che tipo di investimenti? Un buon ufficio stampa, che è un’ottima scelta? O non piuttosto, come sempre più spesso sciaguratamente avviene, la destinazione di una piccola parte degli utili a foraggiare qualche instagrammer prezzolato? Forse è proprio il contrario: alcuni si sono resi conto che sborsare per far postare qualche foto su certi account alla moda è persino controproducente, perché rischia di attirare l’attenzione di segugi come Franchino Er Criminale, che più di una volta ha messo alla berlina l’insincerità di una simile forma di promozione. E in tal caso, lo sputtanamento, folcloristico finché si vuole, è servito. L’unica vera certezza, è che il ristoratore, oggi più che mai, deve decidere come spendere bene i suoi soldi. E fare star bene il cliente. Le sirene di internet possono tutto quello che possono, ma niente di più. E allora, che non siano come le sirene ingannatrici di Ulisse: il conto arriva dopo. Salato.